Carlo Petrini, che giudizio dà del recente fallimento dei negoziati del Wto di Ginevra?

Si tratta di un’ulteriore sconfitta del multilateralismo, dopo quella cui avevamo assistito con il vertice Fao.

Questo è negativo, perché in un momento come quello attuale di globalizzazione se non si rafforzano i rapporti multilaterali l’economia e le grandi scelte vengono lasciate a livello individuale. Di conseguenza viene meno ogni possibilità di regolazione. Il multilateralismo resta l’unica strada auspicabile per permetterla.



Questi fallimenti, in sostanza, segnano un punto di stallo per una globalizzazione virtuosa.

Qual è stato il motivo della rottura dei negoziati?

I Paesi emergenti rivendicano un ruolo più forte e questo in parte gli è stato riconosciuto dagli accordi di Doha. Ma la clausola su cui è saltato tutto riguarda la loro possibilità di attivare barriere doganali se l’ingresso di prodotti agricoli provenienti dagli Usa o dall’Ue supera una certa quota. Gli americani erano disposti a concederla qualora la quota di questi prodotti importati fosse stata superiore al 40%, mentre la Cina chiedeva di fissare la soglia al 10%.



Un dettaglio così determinante?

Direi proprio di no. Il vero problema è che si è creato un muro contro muro che ha visto protagoniste tre grandi potenze: Stati Uniti, India e Cina.

Le ultime due vengono però considerate “Paesi in via di sviluppo”…

Sì e credo che sia un errore. Cina e India hanno economie molto forti, pur avendo al loro interno disuguaglianze sociali abissali, e chiedono quindi di avere più voce a livello internazionale. Cosa che i Paesi africani e alcuni sudamericani non possono neanche immaginare di fare. Lì c’è la vera povertà e le capacità di contrattazione a livello internazionale sono praticamente nulle.



Cosa si può fare per questi Paesi?

Occorre rilocalizzare l’agricoltura, fare in modo che ogni Paese, per quel che riguarda il settore primario (vale a dire la produzione agricola), si renda non dico totalmente autosufficiente, ma fortemente autosufficiente.

Questo è possibile anche per le nazioni africane?

Bisognerà aiutarle a farlo. Certo, fino a quando noi faremo iperproduzione, magari finanziata con sussidi agricoli, andando poi a fare dumping a casa loro, quelle economie agricole non verranno aiutate a crescere. Verranno anzi mortificate, perché importeranno dei prodotti che costano meno dei loro.

Da questo punto di vista, un accordo era stato raggiunto: l’abbattimento dei sussidi è ormai un’opzione su cui si sono convinti gli europei, un po’ meno gli americani.

Eliminare i sussidi non sarà un problema per noi?

La politica dei sussidi è fortemente diseducativa e non aiuta le economie locali. Detto questo, noi abbiamo la possibilità di puntare molto sulla denominazione d’origine. L’Europa insiste molto su questo, perché garantisce la tracciabilità del prodotto e la messa a valore dei saperi tradizionali.

All’America invece non interessa, non solo perché non ha prodotti a denominazione d’origine (pur avendo la possibilità di farlo), ma perché ha una fiorente industria di contraffazione alimentare. Esistono catene di ristorazione che offrono solo suggestioni dell’Italia, ma dove dei nostri prodotti non c’è nulla. Questo è davvero nocivo per le nostre produzioni.

A Terra Madre cercheremo di fare in modo che le denominazioni di origine diventino patrimonio anche dei Paesi poveri.

Perché questa iniziativa?

Perché se i paesi poveri le utilizzassero potrebbero mettere a valore i propri prodotti, che sono un unicum, non contraffazioni.

Se in Turchia facessero un olio di denominazione di origine turca (che è buono), eviterebbero di vendere le loro olive, utilizzate spesso per produrre olio che poi viene venduto come italiano, quando non lo è. Sarebbe un bene per loro, perché venderebbero prodotti di qualità, e per noi, perché avremmo anche più garanzie sui nostri marchi.

Ma qual è il punto di forza dei prodotti con denominazione di origine?

Rispondono a una delle domande più forti dei consumatori: la tracciabilità. Si ha la possibilità quindi di sapere da dove arrivano i prodotti e quale maestria e abilità c’è stata nella loro creazione.

Questo costituisce una garanzia di qualità.