Professor Dario Casati, è fallito l’ultimo tentativo di accordo sul commercio mondiale. Si è chiuso così l’ultimo capitolo del Doha Round, il negoziato del Wto che si è aperto nel 2001 ma che dopo sette anni di trattative non è approdato a nulla. Dobbiamo abituarci al fallimento dei grandi vertici?
Grandi vertici come quello di giugno della Fao o questo del Wto arrivano a risultati scarsi se non sono preparati in modo adeguato. Cioè se non si riducono, come purtroppo è avvenuto nel caso della Fao e poi del G-8, a vetrine politiche in cui si discutono le decisioni già prese dalle cancellerie dei singoli Stati. Questi ultimi due vertici, in particolare, non sono stati preparati nel modo migliore. È un po’ diverso il discorso per il quest’ultimo vertice del Wto, punto d’arrivo di anni di lavoro, certo, fatto però su materie molto tecniche e astruse. In effetti nessuno sa di cosa si discute.
Come spiega l’attuale situazione?
Il mondo sta attraversando una fase in cui si cercano e si formano nuovi equilibri, dopo la caduta dei regimi comunisti, ed è alla ricerca di nuove leadership. Gli organismi internazionali, purtroppo sono legati alla regola dell’unanimità, che difficilmente può produrre risultati concreti. È davvero molto difficile trovare una posizione comune per 153 paesi, da Andorra alla Cina. E cambiare le regole, introducendo per esempio un sistema a maggioranze ponderate, non risolverebbe il problema, perché i paesi più deboli non sarebbero tutelati.
Come si è arrivati a questo impasse?
Fino ad un passato recente gli schieramenti vedevano Usa e Ue da una parte e Paesi in via di sviluppo dall’altra. Ma dal vertice di Cancun del 2003, che ha coagulò gli interessi dei Pvs riunitisi nel G-18, poi diventato G-20 con a capo Cina, Brasile e India, emersi come seconda forza, la situazione è cambiata. Ora questo gruppo si è rotto e gli attori sono Usa, Ue in secondo piano, Cina e India insieme. Cina e India vogliono continuare ad essere considerati Pvs per mantenere le protezioni assicurate ai paesi in difficoltà, ma nello stesso tempo vogliono poter contare. Essendo considerati Pvs sono esenti da quelle norme di disciplina del mercato mondiale a cui sono invece sottoposti i paesi industrializzati. Non sono ancora sicuri della loro solidità, ma nello stesso tempo i loro interessi sono divenuti realmente conflittuali con quelli dei veri paesi in via di sviluppo, i quali invece continuano ad aver bisogno di protezione, e non solo doganale.
Che cosa significa per il commercio mondiale questo fallimento?
Non cambia nulla. Tutto resta così com’è oggi, probabilmente si allungheranno i tempi per una codificazione delle regole del mercato globale. Questo negoziato, chiamato Doha Round, era nato come Millennium Round. Il primo incontro a Seattle terminò con un fallimento e le manifestazioni di massa contro il Wto portarono a una sospensione del negoziato. L’attacco alle Torri Gemelle e la crisi che ne è seguita hanno determinato un ripensamento mondiale. Il negoziato diventa Doha Round per lo sviluppo mondiale, perché in quel momento una grave crisi mondiale era incombente. Doha vede tutti d’accordo nel dire “troviamo una soluzione, perché la strada è obbligata”. Ma da Doha in poi il negoziato si è perso nei tecnicismi. Naturalmente vogliamo tutti che la globalizzazione sia controllata e non sia selvaggia, vogliamo aiutare chi rimane indietro, ma nello stesso tempo manca una approccio più radicale.
Questo negoziato si ferma, ma il processo di globalizzazione spontanea andrà avanti, perché c’è un interesse reciproco dei paesi coinvolti nel processo di produzione e vendita su scala mondiale che ci sia chi produce, chi vende e chi compra. Sembra di banalizzare, ma è così. La difficoltà di governare il processo fa emergere posizioni alla Tremonti, o anche alla Sarkozy, o anche di India e Cina, cioè di chi dice “noi non siamo no global anti-sistema, ma questa globalizzazione sta andando avanti troppo in fretta, ci prende la mano, vogliamo una pausa di riflessione”. Che può far bene: l’Italia ne ha bisogno perché è rimasta indietro e, in effetti, la nostra crescita è bassa. Non ci siamo preparati per tempo. Questa “pausa di riflessione” può essere interessante se la sfruttiamo per aumentare la nostra competitività.
Su Repubblica di ieri, a commento del mancato accordo di Ginevra, ci sono due posizioni che sembrano convergere: quella di Carlo Petrini e del ministro Luca Zaia. Petrini dice che non ci sarà una globalizzazione virtuosa se non si faranno funzionare le sedi del multilateralismo, ma che hanno ragione le Ong a dire che è meglio nessun accordo che un cattivo accordo. Mentre Zaia si considera un “sostenitore” del fallimento, perché un accordo a tutti costi avrebbe penalizzato l’agricoltura italiana. Che ne pensa?
È la stessa posizione antiglobalizzazione. È la paura, che porta infine ad abbracciare una posizione semiprotezionistica. Il tacito problema – dal punto di vista di entrambi – è qual è il passo successivo: non basta dire no. La nostra prima necessità, in agricoltura, come nell’economia italiana in genere, è quella di rafforzare il sistema produttivo, di renderlo più competitivo. Altrimenti saremo marginalizzati.
L’Italia non investe come dovrebbe in agricoltura?
Abbiamo fatto una politica agricola, condivisa a livello europeo, che ha una caratteristica: il depotenziamento del sistema produttivo agricolo. Perché? Perché ritenevamo che il sistema producesse troppe eccedenze, che la difesa di queste eccedenze fosse costosa e ci mettesse in contrasto col resto del mondo. Che l’Europa potesse benissimo esportare manufatti e tecnologia e importare materie prime agricole. Al di là del “giusto o sbagliato”, importa dire che quando è scoppiata una crisi mondiale come quella dell’anno scorso ci si è accorti che quella politica non andava più bene. E che occorre voltare pagina.
Il problema è capire come guardare avanti. Prendiamo per esempio le denominazioni d’origine. I prodotti tipici rappresentano il 6% del mercato alla produzione, al consumo e all’export. Il resto del sistema agricolo produce il resto. I nostri cinque prodotti agricoli di maggior pregio, che sono i due prosciutti, il grana, il parmigiano e il pecorino, coprono il 90% di quel 6%. Come vede è un business molto particolare, che non può tenere in piedi un intero sistema agricolo. Dobbiamo potenziare il sistema produttivo agricolo investendo in tecnologia e innovazione, più che non sul prodotto in sé. Quindi sui processi più che sui prodotti. È in realtà una regola valida per tutto il mondo, perché i Pvs hanno bisogno della stessa cosa altrimenti non mangiano.
L’originalità del prodotto è un nostro punto di forza. Come tutelarla?
L’originalità di un prodotto di grande pregio si salva da sé. In parte è come nella moda: la moda italiana fattura milioni di euro, ma in Italia non si tesse più nulla. Diverso è nel settore agricolo: non posso pensare di fare il Bitto in Danimarca esattamente come posso pensare che uno dei nostri grandi stilisti produca in Romania. L’alimentare non è la stesa cosa, perché è legato alla terra che lo produce. Allora bisogna rafforzare la competitività del sistema agricolo, quello che produce i prodotti di base, e una parte di questi deve confluire verso l’apice di queste “punte” ad alto tasso di qualità. Il prodotto si deve difendere da sé, con la sua qualità alla quale corrisponderà un certo costo. Può trainare il resto, ma poi occorre mantenere un sistema produttivo.
Quali sono, secondo lei, le cose da fare subito?
Primo: non dare per sepolta la globalizzazione. La globalizzazione va avanti lo stesso, il problema è non finire nel gruppo dei perdenti. Secondo: giocare la carta della competitività, investendo in innovazione e tecnologia. Terzo, creare una rete di alleanze nel mondo a partire dall’Europa. Per esempio, nel resto d’Europa la denominazione interessa poco. Ha certamente un valore, ma non è quello che tiene in piedi un sistema produttivo. Il nodo chiave non può essere la difesa dalle contraffazioni, ma solo la produttività del sistema.