È unanime l’opinione secondo cui in Italia tra i principali problemi da affrontare vi sia l’emergenza educativa, per una serie di ben noti motivi non solo di carattere economico, anche se chi scrive soffre di una certa distorsione professionale in tal senso. In primo luogo, lo sviluppo e la valorizzazione del capitale umano rappresentano per un Paese come il nostro (ma discorso analogo vale per l’intera Unione Europea, come sottolineato dalla “Strategia di Lisbona” che faticosamente si cerca di implementare in questo decennio) il fattore fondamentale da cui dipendono la crescita economica e la competitività internazionale, a loro volta premessa indispensabile per migliorare il benessere dei cittadini e promuovere un miglior equilibrio sociale. L’istruzione a tutti i livelli, la formazione professionale, l’università (assieme alla ricerca) hanno la responsabilità di garantire tale obiettivo, come pure quella speculare di formare cittadini più consapevoli e una classe dirigente più adeguata alle sfide che l’attuale contesto pone. Gli studi e le rilevazioni empiriche in materia mostrano un quadro assai preoccupante per l’Italia, come ad esempio, pur con apprezzabili eccezioni, emerge dalle rilevazioni PISA promosse dall’OCSE per le scuole secondarie e dai ranking circa le università.



AMPIO CONSENSO – Il ministro Mariastella Gelmini ha nei giorni scorsi illustrato in Parlamento il programma che intende attuare, riscuotendo un ampio consenso, –segue a pagina 3 a conferma anche del fatto di come la gravità della situazione sia diffusamente percepita. “Autonomia, valutazione e merito” sono le parole chiave utilizzate dal ministro nel delineare le linee guida della propria azione, oltre che per annunciare alcune misure immediate, anche per porre rimedio alle principali manchevolezze della pesante eredità ricevuta dal precedente governo. Forse anche un quarto termine è appropriato, vale a dire accountable (cioè tenuto a “render conto” delle risorse utilizzate tramite i risultati conseguiti, e quindi in grado di farlo). Non a caso si tratta di un termine difficile da tradurre in italiano, forse a causa della nostra scarsa dimestichezza con questa che invece è un’esigenza e una buona pratica fondamentale in altri Paesi. Comunque, il disastro del sistema educativo italiano ha radici che risalgono negli anni, sin da quando si è ottusamente scardinato (a partire dal 1968 e con il contributo negativo della generazione di insegnanti formatasi negli anni successivi che è diventata fattore di accelerazione del peggioramento) un sistema che era apprezzato a livello internazionale (basti pensare a come erano i licei). Si è andati nella direzione opposta al trinomio enunciato dal ministro: accentramento pubblico monopolistico e controllo burocratico deresponsabilizzante piuttosto che autonomia; autoreferenzialità piuttosto che valutazione; livellamento verso il basso piuttosto che meritocrazia. In materia di accountability, in molti casi le risorse sono state usate in modo allegro e senza alcuna correlazione ai risultati ottenuti. Il prezzo è stato pagato dal sistema Italia (sono queste infatti le vere cause del “declino” di cui ciclicamente si parla a seconda della convenienza a farlo) e dalle fasce più deboli, di fatto escluse dalle opportunità di una maggiore mobilità sociale che offre un sistema educativo ben funzionante e premiante del merito. Se quanto enunciato dal ministro è condivisibile, occorre quindi in aggiunta mettere mano al bisturi con una serie di riforme che certamente verranno percepite come rivoluzionarie se non eversive dal nostro sistema ingessato e da chi (a partire dai sindacati e dalla burocrazia ministeriale) ne difende lo status quo.



BASTA AL VALORE LEGALE – Per quanto riguarda l’università, la graduale trasformazione di quelle statali in fondazioni (mentre le non statali di fatto è come se già lo fossero) prevista dal decreto legge del 18 giugno scorso, va intesa come piena responsabilizzazione e ricerca dell’autonomia finanziaria, e non certo come un mero cambiamento di facciata (come avviene con l’attuale legge sull’autonomia universitaria, che rasenta la presa in giro). Sicuramente non sarà un processo facile e indolore, ma renderà il sistema più dinamico e competitivo, dato che la sopravvivenza e lo sviluppo degli atenei dipenderanno in misura crescente dalla loro capacità di svolgere una funzione apprezzata dalla realtà di riferimento (studenti, famiglie, istituzioni, interessi economici, mondo del lavoro, ecc., cioè gli stakeholder) che dovranno farsi carico in buona misura del loro sostegno economico. Certamente dovranno continuare forme di supporto statale, che necessariamente sarà più selettivo e tenderà comunque a ridimensionarsi. Inoltre, continuerà a essere indispensabile il sostegno pubblico per il “diritto allo studio”, assieme ad altre forme che potranno svilupparsi, come borse di studio private, prestiti d’onore, ecc. (come già avviene in taluni atenei). Il “modello economico” delle università non statali offre interessanti spunti di riflessione al riguardo. Condizione fondamentale per la riuscita di una strategia di rilancio basata sulla responsabilizzazione e su una maggiore concorrenza tra atenei è l’abolizione del valore legale dei titoli di studio rilasciati dalle università, un reliquato medievale che praticamente sopravvive solo in Italia, emblema del monopolio statale in campo educativo, che da un lato mortifica l’autonomia degli atenei (nella definizione dei programmi formativi, nel reclutamento dei docenti, nello sviluppo delle infrastrutture) e dall’altro legittima l’ingerenza burocratica del ministero, oltre che la sua stessa sopravvivenza. L’accesso alle professioni e alla pubblica amministrazione (spesso citato come pretesto per il mantenimento del valore legale) può essere disciplinato in altro modo più serio ed efficace. Compito dello Stato invece è quello di definire criteri e linee guida di carattere generale, di monitorare il buon funzionamento del sistema e di vigilare sul rispetto delle “regole del gioco” (attraverso forme efficaci e non burocratiche di valutazione e di controllo della qualità), mentre il resto deve essere lasciato alla responsabilità degli atenei, che avranno tutto l’interesse a coinvolgere nella loro governance i principali stakeholder e che saranno certo molto più attenti ai “mercati” di riferimento. Lo Stato può anche sostenere direttamente talune iniziative formative e di ricerca funzionali ai propri compiti (come le accademie e le scuole militari, la Scuola superiore della pubblica amministrazione e altre ancora) ovvero alla crescita complessiva del sistema e alla sua competitività, privilegiando nell’assegnazione di risorse pubbliche taluni veri centri di eccellenza. Tuttavia, di nuovo, ciò deve essere fatto in modo molto selettivo e trasparente.



PUBBLICO E PRIVATO – Analogo discorso vale per la scuola (e la formazione professionale), dove pure il primo passo da compiere è quello di rompere il monopolio statale in campo educativo. In tutti i Paesi più avanzati il ministero nazionale svolge un’azione di coordinamento e di monitoraggio simile a quella delineata per le università, mentre la responsabilità dei sistemi scolastici è normalmente delle regioni (o equivalenti), con un marcato coinvolgimento delle comunità locali di riferimento. Questo a nostro avviso è il punto fondamentale, in quanto il destino economico e sociale di un territorio (e della sua comunità locale) dipende in modo decisivo dalla sua capacità di sviluppare e attrarre (e/o mantenere) risorse, soprattutto in materia di capitale umano. Ciascuna comunità locale ha elevato interesse a essere molto vicina al proprio sistema formativo e attenta alle sue esigenze, in quando dalla sua qualità e dalla sua performance dipende non solo il futuro dei propri figli, ma quello dell’intera collettività. Studi dell’OCSE in materia hanno dimostrato come i più adatti allo scopo siano i sistemi scolastici dotati di vera autonomia e di elevata flessibilità. Molti sono gli esempi che potrebbero essere citati, tra cui alcune eccellenti scuole professionali sorte grazie all’impegno locale nel dopoguerra, ovvero in anni più lontani e, per quanto riguarda Milano, la nascita del Politecnico, dell’Università Bocconi e dell’Università Cattolica. Tornando al presente e guardando avanti, basterebbe inoltre ricordare come sia stato dimostrato che in molte realtà (sia negli Stati Uniti che altrove) il valore degli immobili residenziali dipende significativamente dalla qualità del sistema scolastico locale. È ovvio che il ministero anche in questo caso dev’essere ridimensionato e drasticamente ristrutturato e che le sue competenze (a parte quanto citato più sopra) e il personale insegnante devono essere trasferiti alle Regioni e quindi alle loro unità organizzative sul territorio. Un parallelo interessante riguarda l’organizzazione del Servizio sanitario nazionale, affidato alla responsabilità delle Regioni e dove il governo centrale mantiene solo limitate responsabilità dirette di gestione (per casi specifici e di carattere eccezionale), oltre che compiti di coordinamento e di monitoraggio. Il nuovo governo italiano ha anche dimostrato, nella sua costituzione, che per tali compiti non serve un ministero ad hoc dotato di proprio portafoglio e di proprie competenze. Occorre inoltre rimuovere il tabù che riguarda la scuola privata. Infatti pubblico e privato debbono concorrere armoniosamente al conseguimento di obiettivi di così vitale importanza, come quelli demandati al sistema educativo. D’altro canto scuole pubbliche e scuole private convivono senza particolari problemi in quasi tutti i Paesi più avanzati, nel rispetto di regole comuni e sotto il controllo del “mercato” di riferimento. Inoltre è stravagante registrare in Italia ricorrenti polemiche sulla scuola privata, dimenticando che, a livello universitario, atenei statali e non statali (a Milano i secondi sono quattro, mentre i primi solo tre) convivono senza obiezioni da parte di alcuno. Anche in questi ambiti il valore legale dei titoli di studio va abolito (il termine “esame di Stato” che si usa per la maturità fa ridere il mondo intero). Sarà il “mercato” a valutare conoscenze, capacità e competenze acquisite dagli studenti, mentre per l’accesso all’università si può immaginare un test nazionale (come il SAT americano) integrato da valutazioni selettive aggiuntive che le singole università eventualmente decideranno di darsi.

SUSSIDIARIETÀ – Quanto proposto pone al centro della organizzazione delle attività di interesse comune il principio di sussidiarietà, che ha radici profonde nel nostro Paese (che tuttavia rimane tra i più centralisti e statalisti) e che è stato abbracciato anche quale modello di riferimento dall’Unione Europea. Ne consegue che la riforma delineata va certo anche nella direzione del federalismo. Tuttavia ciò avviene non tanto sulla base di un’astratta rivendicazione politica, ma in quanto, come il federalismo applicato in altri campi, consente di avere maggiore efficienza e coerenza con gli interessi fondamentali del Paese, attraverso la responsabilizzazione nell’uso delle risorse per il conseguimento degli obiettivi di fondo dei cittadini. La riforma proposta parte da esigenze di crescita economica e di competitività, mentre è del tutto ovvio come la scuola e l’università coinvolgano aspetti che vanno oltre la mera dimensione economica; toccano infatti ambiti e scelte legati alla libertà e allo sviluppo della persona, alla tutela delle radici storiche, culturali e religiose che sono alla base di ogni vera comunità, alla responsabilizzazione di ciascuno nel perseguimento del bene comune, e altri ancora. Tuttavia, anche da questi punti di vista, pare vi sia una larga consonanza tra il disegno proposto e fini perseguiti anche partendo da prospettive diverse (ma non certo in contraddizione tra di loro).

(Tratto da Il Domenicale, 28 Giugno 2008)