Professor Fortis, il nostro export ha fatto segnare quote eccezionali, che ricordano i tempi delle svalutazioni competitive. Secondo i dati diffusi dall’Istat nello scorso marzo, nel totale dei mercati le nostre esportazioni di merci sono cresciute del 9,7%. Le vendite ai paesi dell’Unione Europea sono aumentate del 9,1%, quelle al resto del mondo del 10,5%. Ma qual è la differenza rispetto a quindi anni fa?



La differenza è che all’epoca delle svalutazioni competitive, per l’appunto, sfruttavamo il vantaggio di una moneta debole, un vantaggio durato, nella fase di punta, per un periodo relativamente breve, tra il 1993 e il 1995. È stato un momento particolarmente favorevole culminato nel 1996 con boom e un record tuttora insuperato per quanto riguarda il saldo dei prodotti manufatti, intorno a 54 miliardi di euro. Vale la pena ricordare che all’epoca la Cina non era ancora diventata un competitor così aggressivo, come lo è diventata negli anni 2000, portando un attacco competitivo in tantissimi settori non solo in Italia ma in molti altri paesi del mondo.



Nel periodo che va dal 2002 al 2005 abbiamo poi superato due grosse sfide, quella dell’euro forte e quella della cosiddetta concorrenza asimmetrica cinese.

Esatto. La vera grossa differenza rispetto al 1996 è che i 51 miliardi raggiunti nel 2007 hanno un valore assai superiore. Innanzitutto perchè bisogna tener conto del fatto che dal 2001 al 2007 abbiamo perso qualcosa come 8 miliardi di euro nei comparti più esposti alla concorrenza asimmetrica asiatica. Tuttavia questa perdita è stata più che compensata dalla crescita della meccanica e dalla buona tenuta degli alimentari-vini, che hanno fatto segnare una buona crescita e hanno portato ad un risultato a mio avviso notevolissimo. 51 miliardi appunto con l’euro forte, ottenuti nel 2007, e con la Cina ormai implacabile presente sui mercati mondiali, hanno un significato estremamente diverso dai 54 miliardi del 1996.



Le nostre aziende sono per la stragrande maggioranza imprese micro. È un limite strutturale? Perchè se la dimensione distrettuale è essenziale per caratterizzare le imprese a rete, allora è il distretto – come squadra di produttori che sanno fare sistema – che dovrebbe prevalere sulla dimensione della singola impresa come “unità di misura” del sistema produttivo. Lei come vede questa sorta di antinomia dimensionale, che spesso è all’origine di tante accuse di mancato sviluppo al nostro sistema produttivo?

Io credo che le dimensioni attuali delle imprese del nostro sistema produttivo siano le dimensioni giuste per affrontare le sfide mondiali con quello che abbiamo a disposizione. E dicendo questo, parto dalla constatazione che i grandissimi gruppi che un tempo l’Italia poteva vantare non ci sono più. Un gruppo come la Montecatini era nei primi quattro-cinque del mondo della chimica negli anni ’30-‘40 e oggi non esiste più; l’Olivetti era un gruppo leader della meccanica fine e oggi non esiste praticamente più. Lo stesso gruppo Fiat ha avuto problemi molto seri, e solo con la cura Marchionne ha risollevato la testa. La grande impresa di Stato che c’era un tempo nella metallurgia è sostanzialmente tramontata. Oggi abbiamo invece un capitalismo fatto di imprese di più piccole dimensioni. Queste vanno in ogni caso da giganti che sono riusciti crescere e a svilupparsi in molti comparti – basti pensare a Luxottica che ormai da impresa familiare è diventata un gruppo leader che vale 5 miliardi di euro di fatturato – fino a imprese estremamente piccole attive sopratutto nella lavorazione per conto terzi e nella subfornitura.

E che riescono a competere sui mercati mondiali.

Allora secondo me questo tipo di imprese, evidentemente, non è così inadatto a competere sui mercati mondiali. Se andiamo a vedere i dati del 2007, l‘Italia ha sorpassato nell’export extra-UE non solo la Gran Bretagna, sorpassata già nel 2006, ma anche la Francia. Quindi vuol dire che rispetto ad un Paese come la Francia, che tutti portano ad esempio per le sue grandi imprese nazionali, noi nel commercio estero extra-UE, che è quello più complesso perchè siamo al di fuori dei confini dell’euro, stiamo andando bene. E ci stiamo andando con che cosa? Non con grandissimi gruppi multinazionali, ma con un agguerrito manipolo, i cui capifila sono le famose 4000 medie imprese strutturate di cui ha parlato Mediobanca, che hanno la taglia sufficiente per avere attività commerciali o produttive all’estero.

E che esportano anche la propria rete di subfornitori.

Esattamente. Queste 4000 medie imprese portano con sé una serie di subfornitori e produttori che lavorano per loro e che non posso essere dimenticati. Certamente, se oggi l’Italia avesse una Nokia in periferia di Milano o una Eriksson alla periferia di Torino il nostro export sarebbe anche più forte; però, purtroppo, non ci sono. Il nostro sistema, in modo spontaneo, è riuscito a creare un fluido positivo di esportazioni su mercati internazionali attraverso soggetti che apparentemente non sarebbero in grado di competere, ma che in realtà sono molto più in grado di farlo rispetto ad altri.

Quali devono essere secondo lei le leve dello sviluppo? Il private equity, o il venture capital?

Credo che sicuramente per quanto riguarda lo sviluppo di eventuali settori nuovi, per esempio le biotecnologie o settori ad alta complessità tecnologica, potrebbe avere un qualche impatto uno sviluppo di attività finanziaria a supporto. Una delle criticità maggiori è sicuramente quella di far fronte al cosiddetto ricambio generazionale, ma il capitalismo familiare italiano ha dato dimostrazioni di grande capacità di rinnovamento e di autoperpetuazione nel tempo. È vero che ci sono casi che finiscono in maniera ingloriosa, o comunque con l’estinzione della capacità manageriale della famiglia, ma non è certamente la regola.

Qual è l’originalità del tessuto produttivo italiano?

Nel contesto geografico territoriale italiano dove vediamo un continuo nascere di nuove imprese, c’è un ricambio che magari non è generazionale però di tipo territoriale, ed è un ricambio che gli altri paesi non riescono ad avere in misura analoga al nostro. Perchè è vero che le nostre imprese sono spesso piccole e quindi apparentemente fragili e vulnerabili nel contesto internazionale, però quando un paese ha 550mila imprese manifatturiere come l’Italia, cioè ne ha più di Francia, Germania, Svezia e Olanda messe insieme, vuol dire che c’è molta più gente che si mette in gioco, fa l’imprenditore invece che il dipendente o l’operaio.

Quindi un’anomalia virtuosa la cui ragione d’essere va cercata nello spirito di mettersi in gioco, di rischiare e di intraprendere che ha appena citato.

Infatti. In Italia ci sono molte più persone che altrove che tentano di diventare imprenditori. Molti operai o tecnici sono benissimo capaci di trasformarsi a loro volta in imprenditori, e magari di superare quelle che un tempo erano le imprese di riferimento. Molto spesso quelli che provano ad imitare gli altri ottengono dei successi anche più grandi. È un sistema, il nostro, che era dato per spacciato ma non lo è affatto.

Dove abbiamo i maggiori vantaggi competitivi?

La chiave di volta del nostro successo è la macchina non elettronica, la meccanica strumentale, le macchine industriali, un alveo di attività di dimensioni straordinarie. Se noi consideriamo insieme la meccanica tradizionale, i mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli come gli elicotteri di Finmeccanica e le navi di Fincantieri, le parti per autoveicoli – dove siamo fortissimi: l’anno scorso solo in Germania abbia esportato 3 miliardi di euro di parti per autovetture – gli apparecchi per la casa, dai rubinetti agli elettrodomestici, e gli articoli in materie plastiche dove pure l’Italia eccelle insieme alla Germania, viene fuori un surplus commerciale di 75 miliardi di euro. 75 miliardi di euro sono il doppio di quello che fanno insieme l’alimentare, l’abbigliamento-moda e l’arredamento-casa. Non è più quindi solo il gusto italiano nelle famose “tre F” di un tempo (fashion, food and furniture) ma sempre di più è diventata tecnologia meccanica.

Può fare l’esempio di un settore di assoluta eccellenza?

Siamo primi, per esempio, nel settore della potenza fluida, quel settore estremamente eterogeneo e variegato rappresentato in Italia da quella associazione che si chiama Assofluid e che raggruppa tutte le imprese che in Italia producono per esempio le valvole oppure i componenti ad olio ad alta pressione che vanno a finire nelle parti delle gru, nelle parti delle macchine per imballaggio, macchine alimentari. Qui siamo talmente forti che questo settore ha tassi di crescita a due cifre da diversi anni. È un settore che alimenta non solo le esportazioni, ma anche il mercato interno in maniera formidabile perchè siamo grandi produttori di macchine.

Quando si parla di imprese siamo afflitti da un certo complesso di inferiorità. Che ne pensa?

Il nostro complesso di inferiorità deriva dal fatto che la nostra attenzione va sul basso tasso di crescita del nostro Pil, che però rappresenta solo in misura marginale la vivacità del nostro tessuto imprenditoriale produttivo perchè per quanto il sistema produttivo si dia da fare e ottenga dei grandi successi sui mercati internazionali, è bene ricordare che le esportazioni rappresentano poco più del 20% del Pil. Quindi c’è bisogno che anche il restante 80% dell’economia si dia da fare.

Chi fa parte di questo 80%?

È fatto sostanzialmente di servizi e sappiamo che in questo gigantesco aggregato di servizi c’è dentro di tutto, i servizi della pubblica amministrazione e i servizi infrastrutturali, molti dei quali sono inadeguati al livello che soprattutto il Nord e il Centro Italia hanno raggiunto nell’attività produttiva industriale. Qui bisogna evidentemente porre mano a un’ampia riforma dal lato dell’offerta della qualità dei servizi, che in molti casi non sono allo stesso livello degli altri paesi, perchè l’industria, da sola, e la capacità di export delle nostre imprese hanno una ricaduta positiva sulle imprese ma non sull’intero sistema, che fatica a crescere perchè non riesce a generare altri valori aggiunti negli altri settori economici.

Si spieghi.

Se lei non genera servizi efficienti non può nemmeno farli pagare il giusto. I salari che vengono erogati nella pubblica amministrazione danno a chi vi lavora un ruolo che non è quello di fornire servizi; il ruolo di questi soggetti comincia quando finito il lavoro entrano nei supermercati e consumano il loro stipendio. Stiamo sovvertendo l’ordine dei fattori: affinché si possa spendere di più nei consumi e negli investimenti, bisognerebbe che ci fossero dei redditi al pari dei servizi offerti. Siccome i servizi offerti sono spesso scadenti, i redditi si stanno adeguando. Complice anche la disordinata introduzione dell’euro, il taglio del potere d’acquisto delle famiglie è stato forte e ulteriormente indebolito dalla rasoiata dei rincari dell’energia e degli alimentari, per cui l’80% della restante economia italiana che non si basa sull’export e sull’imprenditoria degli esportatori langue in una situazione difficile.
Occorre distinguere tra la competitività di un sistema produttivo fatto di imprese e un tasso di crescita del paese che invece non può essere supportato solo dall’export, ma deve cominciare a porsi il problema di come razionalizzare un sistema dei servizi che vive su se stesso.


Un suo commento alle misure a favore delle imprese contenute nel Dpef?

A parte le coferme dei provvedimenti già annunciati, come la detassazione degli straordinari e dei premi, è importante l’attenzione che è stata nuovamente ribadita verso i distretti e le reti di imprese, su cui sono stati annunciati provvedimenti che saranno sostanziati più avanti. Il fatto di averli ribaditi mi sembra importante. Anche la semplificazione burocratica e amministrativa è un altro cavallo di battaglia e le iniziative a favore degli start up sono importanti. Riguardo ai distretti, l’obiettivo è quello di sostenere le imprese introducendo vantaggi di tipo fiscale e finanziario. Occorrerà capire come questi vantaggi verranno introdotti, ma mi sembra importante che si sia ridata di nuovo attenzione a questa importante componente della nostra economia.