Dietro ogni smentita, c’è una conferma. La parziale marcia indietro del presidente della Commissione Finanze della Camera, Gianfranco Conte, che ha parlato prima di “abolizione” e poi (dopo la rettifica del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti) di “aggiustamenti” della Robin Hood Tax, nasconde un profondo disagio del centrodestra. Un disagio che è duplice: deriva da un lato dalla frustrazione di chi ha vinto le elezioni promettendo meno tasse e poi, come primo atto, vara una nuova imposta; dall’altro, dalla consapevolezza che il provvedimento in questione è tecnicamente mal fatto e pone le premesse per una pioggia di contestazioni.
La nuova tassa controversa sia per il modo in cui è scritta, sia per gli obiettivi che si pone. Essa è costituita da tre diversi interventi: un aumento strutturale dell’Ires di 5,5 punti percentuali per il solo settore energetico, un aumento esponenziale delle royalties sull’estrazione di idrocarburi dal sottosuolo nazionale, e una “una tantum” sulle scorte (la maggioranza delle quali imposte dalla legge) delle compagnie petrolifere. Se il problema è l’alto costo delle materie prime, una tassa non lo farà certo diminuire: anzi, si tradurrà verosimilmente in aumenti dei prezzi e in meno investimenti, che sono proprio la chiave per uscire dall’attuale crisi. Del resto, è stato chiaro fin dall’inizio che, qualunque cosa siano gli “extraprofitti”, non è certo con un aggravio fiscale che li si può muovere o contenere. Ha buon gioco Tremonti nel minacciare nuovi tributi contro le compagnie che trasferiranno parte del carico aggiuntivo ai consumatori, o nel costringere l’Autorità per l’energia ad approvare una delibera da gosplan sul controllo dei bilanci delle imprese attive lungo la filiera energetica. Ma, a guardar bene, una misura posticcia e mal scritta, per quanto utile a incanalare gli umori più bassi del pubblico, non può esistere. Da qui, lo scontro sottotraccia tra quanti, nella maggioranza, subiscono con insofferenza le bizze tremontiane e chi, invece, si riconosce nel socialismo di destra dell’inquilino di Via XX Settembre. Perché senza volerlo, Tremonti ha scoperchiato un vaso di Pandora, mettendo il neonato Pdl nell’angolo e costringendolo a una non gradita riflessione sulla sua stessa identità. Cos’è il Pdl? È un partito liberale di massa, come Silvio Berlusconi dipingeva Forza Italia un’era geologica fa? Oppure è la destra sociale in doppio petto?
È assai complicato, oggi, uscire da questo vicolo cieco, e molto probabilmente la Robin Hood Tax sopravvivrà al malumore dei più, poiché troppo grande è stato l’investimento in immagine che l’ha accompagnata. Forse potrà essere migliorata da qualche emendamento. Ma il messaggio politico – che, cioè, anche petrolieri, banche e assicuratori dovrebbero versare la loro quota di lacrime, che questo serva oppure no – resterà ed è lì il problema. Perché si tratta di un messaggio incoerente con la ragione sociale del Pdl, a cui gli elettori chiedono (e lo fanno da anni: ci hanno provato prima con la Lega, poi con Fi, oggi con la nuova creatura partorita in Piazza San Babila dal predellino dell’auto del Cav.) meno Stato, meno tasse, meno leggi, ricevendone l’opposto. Se il libro pre-elettorale del ministro dell’Economia è da interpretare come un manifesto per l’azione di governo – la Robin Tax e la polemica antispeculazione lo fanno pensare – resta un solo pensiero, e deprimente. La speranza di Tremonti fa più paura della paura stessa.