“Sussidiarietà” non è più un termine per pochi addetti ai lavori o addirittura una parola il cui suono pronunciare molto sommessamente.

Mentre unanime é la volontà e l’esigenza di trovare soluzioni più adeguate ai problemi sociali e assistenziali che emergono nel nostro Paese, non altrettanto unanime è il consenso circa le soluzioni operative da adottare e le strade più idonee da percorrere, per tentare, quanto meno, di affrontare alcuni dei numerosi ostacoli posti sulla via di uno sviluppo equo e socialmente sostenibile. In altri termini, si tratta di considerare quali rapporti tra società e Stato, tra cittadini e istituzioni, tra comunità e autorità costruire, affinché le potenzialità e le energie presenti nel tessuto sociale possano esprimersi al meglio ed in modo più efficace.

Non è certo spingendo ovvero forzando dall’alto che la società civile può efficacemente trovare al proprio interno le risposte alle sempre nuove istanze di cui essa stessa è portatrice. E non è neppure tentando di “impiegare” le organizzazioni non profit attraverso strumenti e modalità che ultimamente ne snaturano l’indole originaria e le peculiarità relazionali che la società civile può essere aiutata a crescere. Non si tratta, infatti, di una relazione, quella tra società e istituzioni, in cui la prima è in assoluto “il buono” e le seconde “il cattivo”.



Ne consegue che la sussidiarietà non può essere interpretata alla stregua di una clava agitata in aria da alcuni audaci sostenitori del non profit contro le istituzioni nemiche, affinché queste ultime soccombano e trionfi il privato.

Il principio di sussidiarietà costruisce, non distrugge; afferma, non nega; crea rete, non isolamento; contribuisce a far rinascere relazioni interpersonali, non spinge all’individualismo. La sussidiarietà, in altri termini, laddove correttamente implementata, consente di individuare una modalità di azione e di intervento in cui i cittadini sono i diretti protagonisti, sostenuti e supportati dagli enti locali, così che al bisogno di quel determinato territorio o di quella determinata collettività sia data una risposta adeguata, giusta, equa e capace di incentivare le migliori risorse umane sul campo.



La sussidiarietà si contrappone, pertanto, unicamente a una concezione volta a considerare o a voler perpetuare uno Stato oppure un ente locale quale “padrone” assoluto delle risposte ai bisogni che provengono dalla società civile. E questo atteggiamento trova una spiegazione storica nel seguente passaggio che si può leggere in un articolo di S. Zamagni pubblicato nel num. 2/2000 della Rivista “Non Profit”:
«Ebbene, la visione relativistica della libertà, tipica della cultura cosiddetta laica, riducendo la libertà a permissivismo privato e negandole valenza pubblica, ha favorito, nel nostro paese, contrariamente alle intenzioni, la diffusione di quella mentalità e di quella prassi statalistiche che sono oggi il vero impedimento alla fioritura della nostra società civile. È questo un esempio notevole di effetto perverso, una sorta di eterogenesi dei fini che è agevole spiegare: quanto meno spazio si lascia ai soggetti della società civile di autoorganizzarsi e quanto meno spazio si lascia alle norme sociali fondate sul sentimento di colpa di esplicare i loro effetti, tanto più spazio occorre lasciare agli apparati di controllo, burocratico-amministrativo e giudiziario».

Ci sembra questa una attenta ed efficace rappresentazione della realtà in cui ancora oggi siamo chiamati a vivere, quando soprattutto si confonde il principio di sussidiarietà con il sistema delle deleghe di competenze dall’ente statuale gerarchicamente più alto verso quelli più bassi. Federalismo, devolution, deleghe di funzioni costituiscono indubbiamente segnali di un cambiamento in atto nel nostro Paese che non può non interessare altresì il variegato mondo non profit. Quest’ultimo tuttavia, per poter svilupparsi e consolidarsi necessita di un quadro di riferimento in cui chiari sono i ruoli attribuiti agli attori in gioco e quali sono i livelli di responsabilità decisionale.



Cosa può significare tutto ciò nella definizione degli interventi da attivare nel settore socio-assistenziale, per esempio?
Se storicamente il rapporto tra enti pubblici e organizzazioni non profit è stato definito dai contributi (a fondo perduto) che i primi erogavano a favore delle seconde, negli ultimi 10/15 anni, si è progressivamente affermato un nuovo regime di regola­zione che sostitui­sce definitiva­mente l’era dei contri­buti e introduce i primi elementi di quella che in seguito prenderà il nome di cultura della contratta­zione. Se le organizzazioni di terzo settore producono servizi che devono essere continuativi e struttu­rati per garantire una risposta ade­guata al profilo della domanda, lo Stato non può più limitarsi a sostenere la loro azione sulla base di contributi finanziari che coprono solo in parte resi­duale i costi di gestione e produzione. L’impegno continuo e la necessaria professionalità e continuità richiesti per l’erogazione del servizio hanno imposto alle istituzioni pubbliche di impostare diversamente il loro approccio nei confronti degli organismi non profit.

Conseguentemente, le organizzazioni non profit sono divenute veri e propri produttori di servizi, acquistati dagli enti pubblici sulla base dei costi sostenuti. Contra­riamente a quanto accade con i contri­buti, che escludono di principio l’esistenza di una relazione di acquisto e vendita tra enti pubblici e organizzazione del privato sociale, con l’introduzione dei contratti, l’obiettivo perseguito è quello di improntare i rap­porti tra le parti su relazioni di scambio economico che affidano agli enti pub­blici il ruolo di acquirenti e alle organizzazioni non profit quello di pro­duttori di servizi.

Tuttavia, la mancanza di un quadro di norme e regole precise e chiare ha fatto sì che l’affidamento all’esterno dei servizi da parte degli enti pubblici sia stato prevalentemente realizzato attraverso il metodo della trattativa privata. Benché in presenza di un sistema, quello della trattativa privata, che presenta alcuni indubbi equivoci e problemi, tale modalità di intervento ha fornito al settore non profit l’opportunità di adeguare le proprie risorse organizzative e gestionali alle esi­genze di una domanda di servizi che non è più estemporanea e occa­sionale ma stabile e duratura.

Ciò ha evidenziato che la scelta di affidare l’erogazione di servizi so­ciali al settore non profit non riveste più un ca­rattere opzionale, ossia lasciare libere le ammini­strazioni pubbliche di scegliere come e quanta parte dei servizi di welfare af­fidare in gestione alle organizzazioni non profit, ma diviene un’assoluta necessità.

Il radicamento di questa posizione sollecita gli enti pubblici a modificare ulteriormente il sistema con cui affidare i servizi di natura collettiva alle organizzazioni del privato sociale. Invero, si passa dall’acquisto di pacchetti di servizi da fare gestire alle organizzazioni non profit alla richiesta di prestazioni. Il meccanismo dell’acquisto di prestazioni introduce nella regolazione del sistema degli affi­damenti di servizi un ele­mento che è assente nei contratti stipulati a trattativa privata: la concorrenza o competizione.

È indubbio che la concorrenza e la competizione siano, e lo saranno vieppiù in futuro, termini con cui le organizzazioni non profit dovranno confrontarsi. La sussidiarietà, nel contesto sopra delineato, si presenta come lo strumento capace di coniugare responsabilità politico-amministrative ineliminabili e indelegabili con innovative ed efficaci risposte ai bisogni sociali. Non si tratta solamente di individuare le formule giuridico-istituzionali più adeguate per intervenire, ma soprattutto di sottoporre l’azione a controlli di efficacia che valutino attentamente l’outcome e l’output del servizio.

Agli enti locali, soprattutto, spetta monitorare, concertando le procedure e le variabili da sottoporre a costante verifica, gli interventi posti in essere dalle organizzazioni non profit. Queste ultime, per contro, sono chiamate a concepirsi come partners delle pubbliche amministrazioni, impegnate congiuntamente con queste ultime nel tentare di rispondere alle diverse istanze provenienti dalla società civile.

In ultima analisi, la sussidiarietà apre nuove frontiere di azione e di intervento non solo per gli enti territoriali, ma anche per le organizzazioni di terzo settore medesime, sempre meno destinate a costituire “riserve indiane” e sempre più vocate ad agire come imprese sociali.

In questo senso, significativa è l’esperienza maturata in Provincia di Trento, il cui consiglio provinciale ha approvato, nel 2007, a larghissima maggioranza (si direbbe multipartisan) la riforma del welfare provinciale (L.P. Trento 27 luglio 2007, n. 13). Inter alia, la riforma prevede che le nuove politiche di welfare della Provincia Autonoma di Trento passino dall’adozione di modalità di rapporto e collaborazione reali fra l’ente pubblico e le libere organizzazioni dei cittadini e delle famiglie, con le associazioni di volontariato, le imprese non profit, le cooperative e le fondazioni. Tutti soggetti chiamati non più solo ad integrare o completare marginalmente l’iniziativa della Provincia o dei Comuni, ma ad essere protagonisti e responsabili di progetti e attività rilevanti.

In tal modo, il partenariato sociale diventa espressione della miglior sintesi delle caratteristiche di garanzia del pubblico e di efficienza del privato. Partenariato la cui attuabilità è direttamente proporzionale alla costituzione in loco, vale a dire nelle varie comunità del territorio provinciale, di rapporti virtuosi fra pubblico e privato. Ricordo a questo proposito che l’Unione Europea prevede che per tutte le politiche le decisioni siano prese il più possibile vicino ai cittadini. A questo principio la legge provinciale si uniforma, valorizzando il ruolo e la funzione degli ambiti locali nella loro veste di soggetti pubblici e privati coinvolti nell’elaborazione e nell’attuazione dei piani sociali territoriali.

La legge provinciale in argomento contempla e afferma dunque il principio di sussidiarietà, da non confondersi con la semplice esigenza e richiesta di decentramento. Tendenzialmente l’ente pubblico, nelle sue diverse articolazioni istituzionali e territoriali, non deve sostituirsi alla iniziativa sociale, ma regolare e rafforzare i comportamenti virtuosi dei cittadini, intervenendo per garantire i diritti essenziali o “minimi” di assistenza, laddove non vi fossero condizioni sufficienti di risposta da parte dei vari soggetti locali. In questo senso, la riforma delinea un quadro nel quale il ruolo che può assumere la Pubblica amministrazione è soprattutto quello del controllo, della garanzia e del coordinamento, in una parola di “governance” invece che di “government”.

Si tratta di un passaggio di non poco conto, perché delinea un capovolgimento di impostazione rispetto alle tradizionali politiche di Welfare state: la titolarità originaria delle funzioni in materia vengono infatti riconosciute primariamente non all’ente pubblico ma innanzitutto alla singola persona, poi alla famiglia e ai cittadini che si organizzato in associazioni ed enti per rispondere ai loro stessi bisogni, secondo la logica del principio di responsabilità.

Un’implementazione della legge in parola efficace e rispettosa del principio di sussidiarietà transiterà certamente dall’impostazione amministrativa delle istituzioni provinciali e territoriali, ma altresì da una accresciuta presa di consapevolezza del settore delle organizzazioni non profit, chiamate a confrontarsi “in mare aperto”, per affermare non tanto una “bontà” a priori, ma realizzare una capacità di risposta ai bisogni dei cittadini e delle loro aggregazioni.