L’Italia ha bisogno di federalismo, sostiene Tito Boeri, forse l’economista che ha dedicato più attenzione alla dinamica delle spese previdenziali, uno dei grandi buchi neri del sistema Italia. Eppure, lo stesso Boeri sottolinea il rischio che il federalismo porti ad aumentare anziché ridurre la spesa corrente, moltiplicando le funzioni tra i diversi livelli di governo. Basti dire che la riforma Bassanini ha fatto lievitare le spese correnti di un buon 15%. Inoltre, l’ironia della sorte vuole che il dibattito sul federalismo prenda quota nel nostro Paese proprio mentre la crisi economica, ed in particolare i buchi legati alla deregulation finanziaria, fanno emergere la voglia di un maggior intervento statale nell’economia anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti: saranno necessari grandi sforzi per salvare le banche, ma anche per programmare gli investimenti necessari per l’energia, l’ambiente e, perché no, la difesa. E l’Italia non potrà chiamarsi fuori da questo trend. Difficile pensare di poter levare risorse rilevanti allo Stato centrale in una congiuntura come l’attuale. 



Insomma, anche se nell’immaginario collettivo del nostro Paese si va imponendo la sensazione che “federalismo è comunque bello, centralismo brutto”, non è il caso di farsi illusioni: la traduzione in pratica di certi principi sarà cosa ben più difficile che battezzare qualche piazza in più alla memoria di Cattaneo in Lombardia o sfrattare Cavour da qualche via delle città siciliane. Detto questo, i potenziali vantaggi della svolta sono superiori ai rischi: senza un cambio di passo traumatico è difficile immaginare un salto di qualità della spesa pubblica. E, dati gli squilibri attuali tra il Nord, che vanta un livello di reddito superiore alla Scandinavia, e il Mezzogiorno, sotto il Pil pro capite di Grecia e Portogallo, è difficile immaginare che le cose, dal punto di vista della sperequazione possano aumentare in maniera significativa. Ma soprattutto, la scommessa federalista può essere la prima, vera scommessa politica dopo l’aggancio all’unione monetaria di fine millennio in grado di mobilitare l’opinione pubblica verso un obiettivo comune. Le conseguenze, in caso di flop, possono essere drammatiche: probabilmente la lacerazione di quel che resta dello Stato unitario. Solo una forte motivazione politica, però, potrà convincere i cittadini delle Regioni a statuto speciale, al Nord come al Sud, a limitare i trasferimenti a proprio vantaggio. A spiegare ai lombardi che il federalismo fiscale non si tradurrà necessariamente in maggiori risorse da spendere sul proprio territorio, ma anche nella redistribuzione delle risorse a vantaggio dei più deboli. Certo, per una fase transitoria: ma cosa c’è di più definitivo del transitorio quando si parla di pubblica amministrazione?



Non è di poco conto l’ambizione del progetto elaborato dal ministro Calderoli. Al centro della sua proposta, com’è noto, c’è l’obiettivo di garantire a tutti i cittadini italiani i diritti fondamentali in materia di sanità, di assistenza (già oggi il 75% circa della spesa corrente regionale) ma anche di istruzione. Per assicurare un livello adeguato (anche se i confini non sono ancora ben definiti) è previsto un contributo perequativo. La grande novità è che la perequazione, utile a garantire “le prestazioni fissate dalla legge statale, da erogarsi in condizioni di efficienza e di appropriatezza”, non verrà calcolata sulla spesa storica, bensì su costi standard. I trasferimenti saranno calcolati sulla media delle spese delle tre Regioni più virtuose. Il principio segna un grande passo in avanti: finora il decentramento all’italiana ha lasciato i governi locali liberi di spendere senza dover rispondere direttamente ai contribuenti, ma anzi deviando le loro richieste verso lo Stato centrale. Il meccanismo in sè è perfettibile: perché tre Regioni e non la più virtuosa? E perché usare solo l’arma della compartecipazione dell’Iva come strumento di perequazione invece che il bilancio dello Stato in generale?



Ma, al di là degli aspetti tecnici, il principio dal punto di vista quantitativo è apprezzabile. Da un sistema di sussidiarietà calcolato sul “meno efficiente”, fatto apposta per punire le eccellenze, si passa ad un criterio che dovrebbe premiare i casi più virtuosi attivando un sistema di emulazione positivo. Ma il passaggio, soprattutto nella delicata fase transitoria, potrà aver successo soltanto se alla quantità si accompagnerà un’attenzione nuova alla qualità. Altrimenti il passaggio dagli attuali trasferimenti ad un’addizionale Irpef perequata, secondo i primi conteggi, comporta una redistribuzione di risorse pari a 3 miliardi almeno. Il progetto federalista, perciò, incontrerà ostacoli che potranno essere superati solo con la definizione (e, naturalmente, l’applicazione) di regole chiare e politicamente sostenibili a cui dovranno partecipare anche le Regioni a statuto speciale. E ci vorrà molta buona volontà, oltre a capire che le enormi sperequazioni tra i tanti Nord e i tanti Sud del Paese si traducono in maggior povertà, non solo economica, per tutti.

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