Per un adeguato rispetto del mercato e delle regole comunitarie, agli inizi del 1999 il nostro paese adottò, attraverso apposito decreto legge, una nuova regolamentazione del comparto elettrico. Con la separazione delle diverse parti della filiera industriale (produzione, trasporto, distribuzione, vendita, servizi) e le limitazioni agli operatori “integrati” si introdussero nuove regole per giungere ad una reale situazione di mercato dell’energia. A quasi 10 anni da quella disposizione (ricordata dagli addetti come “decreto Bersani”) il settore elettrico è radicalmente mutato nel rispetto di tali norme e di tutte le successive delibere dell’Autorità di settore. Molti miglioramenti sono avvenuti, ma restano significative anomalie rispetto ad altre nazioni europee.



Innanzitutto i prezzi, che sono decisamente più alti, sia per gli usi industriali che per quelli domestici. Famiglie ed imprese, sebbene possano scegliere il fornitore, pagano comunque una “bolletta” che continua ad essere troppo onerosa rispetto alla media continentale: oltre 40% per le prime e il 25% per le seconde.



L’Italia resta forse l’unico paese che non produce la maggior parte dell’energia elettrica di cui necessita utilizzando le due tecnologie che consentono, soprattutto per il costo contenuto del combustibile, ridotti costi operativi: le centrali a carbone e quelle elettronucleari. Le centrali di casa nostra, uniche al mondo, producono oltre il 65% dell’energia necessaria utilizzando principalmente idrocarburi (gas naturale o olio), il cui costo è assai volatile perchè legato ai prezzi del petrolio. La analoga media europea di utilizzo di gas e derivati del petrolio è inferiore al 25%. Non si può non annotare che, oltretutto, l’approvvigionamento del gas avviene in condizioni di rischio strategico ed economico, dipendendo da pochissimi stati esteri (solo tre gasdotti principali a differenza, ad esempio, dalla Spagna che dispone di ben 5 rigassificatori ed è in grado di rifornirsi con trasporto via nave).



Queste anomalie hanno effetto sui costi medi di generazione e di conseguenza sulle tariffe elettriche ai consumatori. È stato calcolato che, per il solo settore industriale e terziario, i cui consumi ammontano a 240.000 GWh, la spesa per l’energia riportata ai prezzi medi europei avrebbe un risparmi di circa 5 miliardi di euro all’anno.

Un’ulteriore situazione bizzarra italiana è la constatazione che per gli utenti domestici i prezzi unitari crescono all’aumentare dei consumi annui (la famiglia numerosa paga il chilowattora ben più del single!). Infine, annoto come l’Italia, insieme al solo Brasile, sia la nazione che non produce all’interno l’intera energia richiesta (importazione pari al 15%).

In questo contesto, il contributo di tutte le fonti di energia rinnovabile (esclusi gli importanti impianti idroelettrici) rimane relativamente modesto, ovvero attorno al 5% della produzione.

Preso atto di questo quadro complessivo, se non si interverrà con sollecitudine e determinazione lo scenario tendenziale dei prossimi 20 anni si profila per nulla migliorativo, né sul lato economico né tanto meno su quello ambientale.

Oggi un programma di intervento per il rilancio di investimenti e iniziative è possibile, sia per le capacità del capitale umano che per quelle finanziarie. Le stesse condizioni politiche sembrano essere favorevoli. Ci sono quindi le condizioni per una ripresa: un interessante confronto al Meeting di Rimini, all’interno di un odierno dibattito pubblico, vede intervenire i principali attori di questo auspicabile scenario.