C’è un gran fermento nelle istituzioni europee sul tema delle energie rinnovabili e si susseguono le iniziative di confronto, approfondimento e comunicazione su questi temi.
La Commissione Europea ha varato uno Strategic Energy Technology Plan affidandone lo sviluppo scientifico e tecnologico all’Istituto per l’Energia del Centro Comune di Ricerca (JRC) con sede a Petten (Olanda). Il centro olandese opera in stretto collegamento con le altre sedi del JRC, come quella italiana di Ispra (VA), che è il centro di eccellenza per le tecnologie del fotovoltaico: lì sono stati testati, controllati e verificati la maggior parte dei pannelli fotovoltaici che si trovano installati in tutta Europa.
A Petten abbiamo raggiunto il direttore dell’Istituto per l’Energia, Giovanni De Santi.
Il Piano mira a sviluppare una nuova strategia europea unitaria per lo sviluppo delle tecnologie per l’energia. Finora ogni Paese ha sviluppato le tecnologie che riteneva più idonee alle proprie caratteristiche; a questo punto però abbiamo bisogno di mettere in comune le risorse, le competenze e i risultati delle ricerche per far sì che l’esito finale sia di un livello superiore.
Anche perché l’Europa, come tutto il mondo, deve far fronte a un ritmo di consumi energetico che sono dati in continua crescita per i prossimi vent’anni.
La risposta a tale situazione non può che essere un sistema anzitutto sostenibile, quindi con minor impatto possibile sulla salute dell’uomo e sull’ambiente. E poi sicuro, nel senso che l’approvvigionamento dell’energia non può dipendere da una sola fonte; non è possibile ad esempio pensare a un sistema energetico che dipenda solo dal di petrolio dai Paesi arabi o dal gas dall’Est europeo, perché così il sistema produttivo si troverebbe facilmente a rischio di crisi. Il futuro dell’energia in Europa sarà quindi legato a un mix di fonti, per poter rispondere in modo più flessibile a qualunque situazione critica.
Infine, deve anche essere un sistema competitivo, in grado di ridurre il costo dell’energia per portare vantaggi alla società e rendere le nostre industrie a loro volta competitive.
Per arrivare a un sistema così, gli sforzi dei singoli stati non sono sufficienti: c’è bisogno di un impegno comune. Gli stati membri hanno allora accettato di unire le strategie e di elaborare un piano unitario, che prevede la partecipazione di tutte le forze che ogni Paese può mettere in campo: centri di ricerca, industrie, istituzioni varie. Abbiamo finalmente una cabina di regia, dalla quale valutare quali sono le risorse energetiche ottimali. In questo quadro quindi, se si parla dello sviluppo ad esempio dell’energia eolica, è chiaro che si penserà principalmente ai Paesi con ampie zone costiere e forti venti, quindi dalla Danimarca alla costiera francese e giù fino alla Spagna. Oppure, se faccio un discorso sul fotovoltaico, punterò sulle zone meridionali del continente; se penso ai biocombustibili, il riferimento saranno le grandi distese coltivabili del centro Europa, e così via.
Attenzione: la Commissione elabora un piano e indica delle priorità, ma poi le scelte finali restano a ogni singolo stato. La CE non si permetterà mai di imporre a un Paese di seguire una filiera piuttosto che un’altra. È chiaro però che se studiamo insieme i futuri scenari energetici, si troverà più facilmente una base comune e un accordo sulle scelte da privilegiare. Il nucleare, come le altre, è una scelta aperta a chiunque e la sua implementazione dipende dalle decisioni dei singoli: ci sono Paesi nettamente contrari, come l’Austria, altri decisamente favorevoli,come la Francia, e in mezzo tanti gradi di opzionalità. Ma lo stesso si può dire per una fonte tradizionale come il carbone: ci sono Paesi come UK e Polonia che hanno abbondanti risorse carbonifere e puntano necessariamente sull’utilizzo del “carbone pulito” come una delle fonti primarie per il futuro. Ciò che ci preme come Comunità è che anche in questi casi valgano i criteri detti prima, cioè bassi costi e sostenibilità ambientale.
Il piano strategico indica otto tecnologie da privilegiare per il futuro. Può commentarle brevemente?
C’è l’energia eolica; quella solare, sia nella forma cosiddetta termica che nel fotovoltaico; il carbone pulito, quindi con la possibilità di trattenere e immagazzinare la CO2. Poi c’è la fissione nucleare, pensando soprattutto ai sistemi di quarta generazione: sono tecnologie ancora allo studio, ma sono convinto che tra il 2020 e 2030 potremo avere i primi impianti prototipo e quindi andare in fase industriale dopo il 2030. C’è anche la fusione nucleare, ma qui si parla del 2050 come possibile primo traguardo. Altre tecnologie indicate nel Piano sono quelle per l’idrogeno e le celle a combustibile, per poter avere soluzioni ideali soprattutto per i trasporti.
Sono interessanti quelli di seconda generazione. Quelli di prima generazione sono ben noti e già in commercio: sia come biodiesel, da vari oli vegetali; sia come bioetanolo dai vari zuccheri, quindi canna da zucchero, barbabietole, ecc. La seconda generazione si basa soprattutto su residui di legno ed erbe particolari, attraverso processi chimici per trasformare la cellulosa in liquidi combustibili: il vantaggio evidente è di eliminare l’impatto sui costi delle materie prime per altri settori cruciali, come l’alimentare. Naturalmente c’è ancora molto da lavorare come R&S per rendere questi biocombustibili vantaggiosi e competitivi con quelli tradizionali.
Senza dubbio il punto forse più significativo riguarda la smart grid, ovvero la rete di distribuzione unica per tutto il continente e dotata di grande flessibilità. È un passo fondamentale: se si vogliono coordinare le diverse sorgenti energetiche, si deve massimizzare ogni sorgente nelle zone più vantaggiose, come si è detto, ma poi bisogna poter trasportare l’energia prodotta nelle altre zone del continente quando è necessario. Serve quindi una rete che sia compatibile, cioè che superi le barriere tecnologiche e anche economiche che ancora ci sono tra i diversi Paesi; che sappia recepire l’energia quando arriva – non tutte sono costanti come il nucleare o il carbone; ad esempio l’energia solare e l’eolica hanno dei picchi e dei vuoti legati alle condizioni meteorologiche – e che riesca a immagazzinarla per poi distribuirla all’occorrenza.
Il fotovoltaicoha bisogno ancora di molto sviluppo tecnologico. Finora si è basato soprattutto su cristalli di silicio, ma si stanno sviluppando quelli a film sottile e quelli ancor più avanzati basati su materiali organici. La ricerca e lo sviluppo in questo campo stanno avanzando velocemente, ma devono essere maggiormente supportate da investimenti industriali di alto livello e di grandi dimensioni, perché i costi di produzioni sono ancora molto alti.
Siamo convinti che il fotovoltaico potrebbe essere competitivo in gran parte d’Europa per il 2020. Già ora, in Italia e nel Sud Europa dove ha una resa superiore, i suoi costi sono confrontabili con quelli tradizionali nei momenti di picco, quando anche le altre fonti richiedono costi di produzione e distribuzione elevati. In generale comunque, pensando a tutta l’Europa, potremmo essere a un buon livello di competitività tra il 2020 e 2030, con costi dell’ordine dei 20 cent/kWh. Si potrebbe arrivare così a produrre col fotovoltaico anche un 3-4% dell’energia per utilizzi domestici (cioè utenze abbastanza modeste) in Europa: un traguardo non trascurabile.
Bisognerà aspettare un po’ di più perché il costo si deve ridurre fino a 4-6 cent/kWh e per questo ci vorranno almeno altri dieci anni.
C’è da osservare che i costi dipendono molto non solo dagli investimenti, dai materiali, dai limiti tecnologici ma anche dalle lungaggini amministrative per gli adempimenti vari, le autorizzazioni i controlli e cosi via. Ad esempio in Germania se voglio installare un pannello basta qualche mese; ma in altri Paesi, come la stessa Italia o la Grecia e Spagna, si parla di un anno un anno e mezzo e ciò scoraggia gli utenti e si ripercuote negativamente sui costi finali, riducendo ulteriormente la competitività.
Sono proposte riportate in modo un po’ distorto. È vero che, dal puro punto di vista dei calcoli fisico-matematici, se ricoprissimo con pannelli fotovoltaici e con concentratori solari un’area del Sahara grande come la Lombardia potremmo avere energia per tutta Europa. Ma si tratta di niente più di un esercizio teorico, che non basta per arrivare neppure al progetto di un qualche tipo di centrale tecnicamente realizzabile. E poi vale il discorso precedente: l’Europa non accetterà mai di far dipendere tutta la sua fornitura energetica da una sola fonte. Anche l’altro progetto rientra nel campo delle ipotesi scientificamente fondate che però devono tener conto di tutta una serie di fattori realizzativi, primo fra tutti quello di appoggiarsi a una rete flessibile e a dei sistemi di immagazzinamento dell’energia molto efficienti.
Proposte come queste possono servire solo per far intuire il potenziale della fonte solare. E magari sollecitare altre soluzioni più realistiche. Ad esempio potremmo utilizzare le potenzialità della radiazione solare nel Nord Africa per installare una rete di impianti collegati tra loro e dai quali poi l’energia possa essere trasferita sul nostro continente. Questa è già più che un’ipotesi; ci sono già anche delle stime e delle valutazioni numeriche: si parla di un contributo al 2020 dell’ordine di 60 TWh (milioni di kWh) che costituisce quasi il 70% del target europeo per le energie rinnovabili.