Su queste pagine ho criticato in precedenza la politica economica del governo perché, pur facendo bene a definire e blindare un tetto rigido di spesa pubblica, non ha finora mostrato alcuna sostanziale capacità reattiva di contingenza. Sperabilmente, in settembre, dovrebbe colmare tale vuoto di intervento ed agire proporzionalmente alla recessione/stagnazione in atto. Al momento non ci sono annunci in materia, quelli di agosto sono stati inquietanti perché indicavano confusione in materia di Ici ed una propensione a produrre miti remoti, per esempio l’effetto di riduzione delle tasse a seguito della riforma federalista. Con la complicazione di una divergenza tra Berlusconi e Tremonti: il secondo ha scritto che per tre anni non si ridurranno le tasse – ed alluso che solo con il federalismo, appunto, tale riduzione avverrà – mentre il primo, stando ad un titolo de il Giornale di qualche settimana fa – ha ribadito che le tasse verranno tagliate. Sinceramente auguro al governo, dopo il relax estivo, di trovare una linea più ordinata e consistente di politica economica. Ma – vista la situazione di stallo ideativo – è opportuno specificare per grandi linee cosa si dovrebbe e si potrebbe fare.



La regola europea corrente impone la tendenza al pareggio di bilancio anno per anno. Ciò impedisce detassazioni stimolative consistenti, che richiedono almeno due o tre anni di deficit prima di riequilibrare i bilanci. Ma questo limite non è un buon motivo per rinunciare al taglio delle tasse. L’obiettivo può essere raggiunto puntando alla riduzione di aliquote della spesa di interessi sul debito (70 miliardi annui circa) abbattendone una parte. Questa è l’unica via: impacchettare velocemente pezzi di patrimonio pubblico, venderli ed usare il risparmio sulla spesa per interessi per ridurre le tasse. Il patrimonio vendibile con una certa velocità è fatto di partecipazioni azionarie dello Stato ed una parte di immobili liquidabili velocemente. Ad occhio, in due anni il debito potrebbe essere ridotto di circa 200 miliardi e comportare un risparmio sulla spesa annuale per interessi dai 10 ai 12 miliardi, quasi un punto di Pil. Tale ammontare va messo a servizio della detassazione sia delle famiglie sia delle imprese, con un prodotto finanziario che permetta di anticiparne gli effetti. In tal modo vi sarebbe una forte stimolazione immediata (più spesa per consumi ed incentivi per più investimenti) combinata con la riduzione di un peso strutturale. Tale azione richiede una tecnica raffinata ed è difficile. Ma non impossibile e non si capisce perché il governo non la metta in priorità.



Oltre a questa azione vitale c’è la possibilità di tante stimolazioni di contorno agendo sulle regole economiche. Detassare totalmente il lavoro straordinario, incentivare le piccole imprese a fondersi o ad ingrandirsi, aumentare la concorrenza tra banche e tra assicurazioni per ridurne i costi, incentivare la nascita di fondi di investimento non bancari e, soprattutto, inserire la concorrenza nel sistema di produzione e diffusione dell’energia per abbatterne i costi, che sono superiori del 30%, se non di più, in relazione alla media europea, ecc. Questo serve a dire che esiste uno spazio di stimolazione indiretta che non implica grandi perdite di gettito e che può dare ottimi risultati sistemici. Va detto che il governo ha iniziato a muoversi in tale direzione, ma senza l’impulso che ci si aspettava dai portatori di un progetto liberalizzante e modernizzante.



In conclusione, ci sono due cose da fare con valore risolutivo sia contingente sia strutturale. Il governo tenti di farle. Se non ci riesce dovrà spiegare il perché, in quanto l’analisi tecnica porta a ritenere le iniziative di cui abbiamo parlato, pur non facili, certamente fattibili almeno in parte. Anche metà basterebbe.

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