Con la delibera del 29 luglio scorso, il Comitato per il credito e il risparmio, presieduto dal Ministro dell’economia e delle finanze, Giulio Tremonti, ha tolto gran parte dei paletti che impedivano alle banche di essere socie rilevanti delle imprese industriali.

Il passo sarà completo quando Banca d’Italia avrà adeguato i propri regolamenti, ma si tratta di semplice compliance di una volontà politica netta, che ha trovato espressione nella sua propria sede istituzionale.



Si dirà che si è trattato di semplice adattamento alle direttive europee del 2006 sul tema, e ciò è vero. Ma la misura si inserisce nel contesto di tempo e di luogo italiano e merita una lettura non solo tecnica ma di sistema.

Ora, l’Italia ha perso con Tangentopoli una regia economica di matrice politica. La fase delle privatizzazioni si è compiuta e l’IRI non c’è più. Le banche di interesse nazionale, le quattro BIN, ve le ricordate?, sono ormai confluite in Intesa ed Unicredit. Insomma, lo Stato si è tagliato le mani nel suo rapporto con il mondo industriale e finanziario.



Si dirà: bene così, non è giusto infatti, in una economia aperta, che lo stato si intrometta nella proprietà delle imprese. Lo Stato deve dettare le regole e farle rispettare, ma fatto ciò deve lasciare al mercato lo stabilire di chi sono le imprese e le banche e cosa fanno.

Giustissimo, ma attenzione a non essere astratti. Infatti, in Italia, la questione del rapporto tra Stato e imprese, la questione della politica industriale, è un po’ più complicata che in contesti più liberisti e ciò, principalmente, per il modo con il quale si è compiuto il processo di privatizzazione del settore bancario.



Se prendiamo le tre banche maggiori, nell’ordine Intesa, Unicredit e Monte dei Paschi, vediamo che sono, chi più chi meno, sotto il controllo (MPS) o l’influenza (Intesa, in specie) di fondazioni la cui governance è in parte nelle mani di comunità ed istituzioni localistiche e in parte di una classe di civil servants che è riuscita, attraverso regole statutarie ad hoc, ad autoreferenziarsi. Insomma, i soci che contano in queste banche non sono né istituzioni finanziarie, né soggetti industriali, né coerenti emanazioni di un qualche potere centrale. Non sono né mercato né politica. Sono un ibrido. Un ibrido complicatissimo nelle sue dinamiche di selezione interna (leggete gli statuti di queste fondazioni per farvene un’idea).

A ciò si aggiunge il fatto che la gestione delle banche è sotto la ferrea regia e vigilanza di Banca d’Italia e Banca d’Italia è una delle poche istituzioni veramente indipendenti dalla politica.

Dunque, da un lato il governo nazionale che ha un disperato bisogno di fare politica industriale attiva, nei settori del project financing per le infrastrutture, dello sviluppo e, perché no, del salvataggio delle imprese strategiche, dall’altro un settore bancario che non risponde né al mercato né alla politica, che va per linee sue, difficili da decifrare. Lo Stato non può fare solo il regolatore, lasciando agire il mercato, perché un mercato evoluto non c’è, e non può fare l’interventore, perché conta poco, influisce poco. Il paese è in mezzo. Per anni è stato come essere a bordo di un’auto in cui lo sterzo, la politica, non riusciva a dare la direzione alle ruote. Il motore c’era anche (il risparmio italiano è forte e potrebbe alimentare un sistema industriale robusto) ma non aveva indirizzo. E questo mentre, alla faccia della globalizzazione, i nostri partners nazionali, Francia, Germania, Spagna in testa, facevano “sistema”, o davano vita a fondi sovrani o, semplicemente, incrementavano sistemi finanziari evoluti, con borse liquide, settori di private equity importanti e differenziati che sostenevano lo sviluppo delle imprese.

In questo modo, mentre gli altri non mollavano di un centimetro, abbiamo rischiato di giocarci la Fiat, che senza la dote di General Motors (1,5 miliardi di euro) e la bravura di Marchionne oggi sarebbe in mani straniere e ci siamo mezzi giocati la Telecom, indebitata fino al collo (ci vorrebbe un grosso aumento di capitale per togliere questa azienda dalle secche in cui si trova e solo le banche hanno quei soldi) e consegnata, se pure con tutti i distinguo del caso, a Telefonica. Per non dire della grande chimica, quella saltata nella stagione folle di Tangentopoli, con le cervella del povero Gardini.

Ecco perché tutto il secondo governo Berlusconi ha vissuto un conflitto sordo e ostinato con il sistema bancario (si ricorderanno gli scontri Tremonti/fondazioni bancarie e Tremonti/Fazio). Ed ecco perché Prodi ha dato maggiori garanzie agli italiani nel 2006: si percepiva che avrebbe potuto meglio allearsi con quel settore di quanto non potesse fare Berlusconi (ricorderete che i maggiori banchieri italiani erano tutti, chi più o chi meno, favorevoli al centrosinistra, fino a schierarsi apertamente andando a votare le primarie del PD).

Adesso la musica è cambiata. Il lavacro elettorale della primavera del 2008 ha convinto tutti che questo è un governo forte, che dura, che può decidere. Improvvisamente, Intesa si mette al servizio del Paese, e Passera vuole e fa un’operazione come Alitalia. Tremonti si mette a predicare come farebbe uno statista tedesco. Siamo all’appeasement politico e culturale. Si è creata un’elite che non esclude ma include Berlusconi. Il governo sente di avere oggi una sponda nelle banche, o almeno in Intesa, la banca più grande (e tanto basta, e vedrete che Unicredit tornerà all’ovile se non vuole subire altri danni tipo il ridimensionamento del suo ruolo in Mediobanca, di cui pure è prima azionista, a favore del governativo Geronzi, che pure non ha un’azione della stessa), e toglie il tappo ai capitali bancari verso le imprese. Le banche potranno investire senza grossi limiti nelle aziende industriali e così potranno contribuire all’irrobustimento del sistema produttivo del paese, che ha bisogno di crescere in dimensione.

Primi banchi di prova di questo nuovo assetto saranno Alitalia, of course, e, vedrete, Telecom. Quella Telecom che va tolta dalla tutela spagnola. Quella Telecom che ha delle enormi potenzialità solo che si riduca quel maledetto debito che da ormai un decennio drena tutte le risorse per gli investimenti.

Insomma, la delibera del Cicr cade in un momento in cui la politica è di nuovo forte, e può permettersi di dare alle banche disco verde per entrare nelle imprese e aumentare ancora di più il loro potere. Attenzione però: la forza della politica dipende dall’eccezionale risultato elettorale. Potrebbe non essere così al prossimo turno. La politica deve approfittare di questo momento per rafforzarsi sul piano istituzionale, e continuare a detenere questo primato anche con risultati delle votazioni meno netti. Altrimenti, assisteremo a nuovi squilibri, a favore del sistema bancario, di questo sistema bancario, troppo caratterizzato da una governance opaca.