Se la decisione dell’Opec di ridurre la produzione ai livelli di settembre 2007 – circa mezzo milione di barili al giorno in meno – doveva servire a riaccendere la corsa del greggio, la missione è fallita. Il petrolio, infatti, ha proseguito pressoché indisturbato la sua corsa al ribasso, tranne una repentina ma effimera spinta rialzista nella mattinata di martedì, non appena le borse hanno preso atto della determinazione del cartello petrolifero (comunicata lunedì, a notte inoltrata).
Per il resto, non si è invertita la tendenza al ribasso che, da metà luglio, ci ha allontanati dallo spettro dei 200 dollari, per ricondurci verso livelli, per quanto alti secondo gli standard storici, più tollerabili. Ad aiutare la discesa sono intervenute le previsioni sui consumi 2008 da parte dell’Agenzia internazionale dell’energia, ancora una volta riviste al ribasso, e i dati positivi sulla tenuta delle scorte americane. Questo non significa che la deliberazione dell’Opec non abbia peso, o che non fornisca informazioni molto importanti. I trader, però, hanno semplicemente ritenuto l’impatto dell’attesa diminuzione della produzione sufficientemente limitato da poter essere tranquillamente assorbito da una domanda in frenata. Ed è sulla dinamica della domanda – la quale a sua volta influenza il comportamento degli speculatori – che si concentrano le diverse valutazioni dei maggiori paesi produttori.
L’intervento dell’Opec, che fino a poche ore prima della fine della riunione era considerato molto improbabile, è forse conseguenza immediata dell’impatto psicologico della discesa del Brent sotto la soglia dei 100 dollari. Ma nasconde anche un durissimo scontro interno tra falchi – Iran e Venezuela in primis – e colombe, guidate dall’Arabia Saudita. Non è solo la diversa attitudine politica verso gli Stati Uniti a dividerli, coi sauditi dialoganti e venezuelani e iraniani intransigenti. È, soprattutto, una differenza di visione economica e un conflitto di interessi. Riad ritiene che prezzi troppo alti per troppo tempo abbiano innescato una reazione violenta della domanda, che tenderà a ridursi in maniera strutturale, e non vogliono spingere ulteriormente, temendo nel lungo termine una contrazione del mercato. Teheran e Caracas, al contrario, sembrano confidare nella disponibilità dell’Occidente a pagare una bolletta sempre più salata. Per di più, le loro infrastrutture petrolifere faticano a tenere il ritmo, e la loro ritrosia contro le multinazionali impedisce di effettuare i necessari investimenti e di mettere in campo le tecnologie più sofisticate.
Quindi, cercano di spremere il più possibile il loro tesoro sotterraneo, sapendo che, alla lunga, il timore saudita finirà per avverarsi (come già accaduto in passato, quando prezzi troppo alti hanno finito per creare un eccesso di produzione e quindi per determinare il crollo delle quotazioni). Il fatto che i mercati non abbiano dato grande peso al taglio – può darsi anche perché nutrono fiducia nella proverbiale slealtà dei membri Opec, che per aumentare i profitti immediati spesso vendono di straforo al di sopra delle rispettive quote – non vuol dire, naturalmente, che questa temporanea vittoria dell’asse Ahmadinejad-Chavez vada presa alla leggera. Un incattivimento dei rapporti interni all’Opec potrebbe costringere l’Arabia a ulteriori ritirate tattiche (dopo l’aumento della produzione unilateralmente deciso durante l’estate), e queste potrebbero avere un impatto maggiore. Ma il nervosismo interno all’organizzazione è il segno più chiaro che il vento sta cambiando e che, forse, si è davvero avviato il processo di normalizzazione dei prezzi.