Il crollo che ha colpito le borse di tutto il mondo negli ultimi giorni riporta la crisi finanziaria al centro delle analisi sullo stato dell’economia. I mercati hanno appena assistito al tracollo della storica banca d’investimenti americana Lehman Brothers, che ha dovuto ricorrere alla procedura fallimentare dopo che anche Barclay Bank si era ritirata dalle trattative di acquisto, rinunciando ad un disperato tentativo di soccorso. Dopo aver provveduto al salvataggio di Bear Stearns e alla nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac, il Tesoro americano ha deciso in questo caso di non intervenire direttamente, forse anche per paura di essere accusato, in un periodo di accesa campagna elettorale, di scaricare oneri troppo pesanti sulle future generazioni di americani.



È una decisione che desta perplessità ma, se si vuole vedere il bicchiere mezzo pieno, il non intervento del governo americano può essere interpretato come un segno di fiducia nella capacità dei mercati di assorbire questo ulteriore shock. Un nuovo intervento avrebbe poi potuto creare un problema di azzardo morale perché è evidente che si tende a tenere un comportamento eccessivamente rischioso quando si prevede che i costi relativi ad un eventuale esito negativo saranno sostenuti dalla collettività. Nonostante tutte queste possibili giustificazioni resta però la sensazione che il Tesoro americano avrebbe dovuto comunque intervenire perché c’è davvero da dubitare che, data la gravità della crisi, qualche altra banca in difficoltà possa al momento trarre un qualche insegnamento dalla lezione Lehman.



È probabilmente ancora troppo presto per trarre delle conclusioni su una crisi finanziaria di cui ancora non si vede la fine ma quello che si può certamente dire è che il sistema di vigilanza americana, suddiviso tra diverse autorità non sempre coordinate tra loro, ha mostrato limiti di una gravità inaspettata. Per non parlare poi delle gravissime responsabilità delle agenzie di rating, che hanno allegramente certificato la solidità di bilanci che sani non erano affatto. Anche se si tratta di problemi tutti americani perché il sistema finanziario europeo sta dimostrando invece di avere una struttura di governance e controllo assai più solida, tuttavia con un sistema finanziario mondiale così interconnesso le ripercussioni si stanno avvertendo forti anche al di qua dell’Atlantico, e con un’Europa ormai sull’orlo della recessione il riesplodere della crisi finanziaria americana preannuncia tempi difficili anche per una economia dai fondamentali sostanzialmente solidi come quella del vecchio continente.



Già la settimana scorsa la Commissione europea aveva tagliato le stime sulla crescita percentuale del Pil nel 2008 per la zona euro portandole all’1.3% quando solo un anno fa si prevedeva una crescita del 2.6% e ad aprile si continuava a sperare nel raggiungimento di un più sostanzioso 1.7%. E l’Italia? Come si presentano oggi le prospettive per il nostro Paese? Secondo la Commissione nel 2008 saremo il fanalino di coda dell’Europa, con una previsione di crescita soltanto dello 0.1% e un’inflazione del 3.7% (peraltro in linea con la media europea). Dopo aver registrato nel secondo trimestre di quest’anno un calo congiunturale dello 0.3%, con un arretramento dello 0.1% rispetto all’anno scorso, la paura di essere entrati in un periodo di forte recessione è effettivamente giustificata. E tuttavia, in contrasto con il pessimismo di alcuni autorevoli commentatori (ad esempio Giuseppe Turani, Recessione, per il made in Italy si annuncia l’anno nero che verrà, la Repubblica – Affari & Finanza, 15 settembre 2008) che prevedono un anno terribile per le nostre imprese, noi riteniamo invece che sarà proprio il nostro sistema produttivo a tenere a galla il Paese nei prossimi mesi.

Certo, un’economia europea in recessione non aiuterà le nostre esportazioni ma non bisogna dimenticare che il nostro export manifatturiero è stato capace di crescere del 9% nel 2006 e del 10% nel 2007. Il saldo commerciale delle 4A del made in Italy identificate da Marco Fortis (alimentari–bevande, abbigliamento–moda, arredo–casa, automazione–meccanica) ha portato ad un surplus che nel 2006 è stato di 92 miliardi di euro e nel 2007 è stato di ben 113 miliardi di euro. Sono dati straordinari che hanno consentito al Paese di mantenere una bilancia commerciale in un modesto deficit e che mostrano come le nostre difficoltà di crescita non dipendano da un sistema imprenditoriale che è invece sano e competitivo. Le nostre imprese sono state capaci, negli ultimi cinque anni, di conseguire un doppio riposizionamento strategico, geografico e qualitativo, nel senso che sono riuscite sia a ampliare considerevolmente i mercati di sbocco delle nostre merci, con un consistente aumento, ad esempio, della nostra presenza sui mercati russo e cinese, e sia a far crescere la qualità delle nostre esportazioni, che si posizionano oggi su segmenti di mercato di fascia alta o medio-alta.

L’Italia possiede un sistema manifatturiero composto da una rete di PMI connesse da un uno straordinario capitale sociale e da un ricchissimo capitale umano, costruito a partire una imprenditorialità capace di generare una continua innovazione di prodotto e di processo. La sottovalutazione della capacità delle nostre imprese fa parte purtroppo di quella micidiale filosofia del declino che tende sempre a riemergere nei momenti di difficoltà, ma i risultati conseguiti grazie alla capacità di innovazione e di internazionalizzazione dei nostri imprenditori dovrebbero finalmente far capire che gli elementi della nostra debolezza devono essere piuttosto ricercati in una bolletta energetica pesantissima, in un gigantesco debito pubblico, nel persistente (e per molti versi crescente) differenziale di sviluppo economico e sociale tra Nord e Sud, nell’insufficiente sviluppo delle infrastrutture, nella forte imposizione fiscale, nelle carenze del sistema formativo.

I fatti mostrano che il nostro ciclo economico è stato, negli ultimi due anni, fortemente influenzato dalla dinamica delle esportazioni. Le nostre imprese sono state capaci di competere con successo sui mercati internazionali e bisogna quindi evitare di estendere alle imprese un giudizio negativo su un sistema Paese ancora oberato da inefficienze, burocrazia, sommerso. Certamente il sostegno di un sistema finanziario solido e efficiente è indispensabile per qualunque sistema produttivo e, in questo senso, la crisi americana con i suoi inevitabili contraccolpi in Europa, costituisce un aggravio non indifferente in una situazione congiunturale già difficile. Ma se avremo il coraggio, come sembra stia accadendo negli ultimi mesi, di fare quelle riforme indispensabili per far correre il Paese sui binari della sussidiarietà, della responsabilizzazione e della valorizzazione del merito, allora le nostre imprese faranno certamente la loro parte, anzi saranno finalmente messe in condizione di fare di più e meglio.