Il Tesoro americano aveva detto non più tardi di tre giorni prima, che i denari del contribuente non sarebbero stati posti che a garanzia di banche commerciali a rischio, per evitare effetti sui depositi e crisi sistemiche di fiducia. Per questo Paulson e Bernanke non avevano aperto i paracadute a Lehman Brothers. Eppure la fermezza è durata appunto solo 72 ore, perché di nuovo al denaro del contribuente si ricorre, per 85 miliardi di dollari, al fine di evitare il fallimento di AIG, che non è una banca commerciale ma “era” la prima compagnia d’assicurazione al mondo. È per evitare il panico di milioni di assicurati che sarebbero rimasti scoperti nelle polizze per cui avevano pagato i premi? No. Come nel caso di Bear Stearns, “salvata” dalle autorità governative pilotandola verso JpMorgan, anche per AIG il problema è quello di evitare una crisi a catena dei rischi di controparte: non nella clientela retail e d’impresa, ma nella comunità finanziaria. AIG ha piazzato ad altri intermediari finanziari in tutto il mondo, pare per almeno 500 miliardi di dollari a stare almeno ai 5 downgrading di rating che AIG ha subito nei mesi scorsi dalle maggiori agenzie di merito di credito internazionale, garanzie non solo a fronte di cartolarizzazioni immobiliari ad alto rischio d’insolvenza – il che ci riporta 16 mesi indietro all’inizio della crisi, quella dei mutui subprime – ma soprattutto sui Credit Default Swaps. Questi, da prodotto “collaterale” inizialmente almeno in parte legato al comparto assicurativo (e riassicurativo), si sono tradotti negli anni in un maxi mercato speculativo non regolamentato sulle probabilità di fallimento di imprese, con una stima di valore nozionale che secondo la BRI ammontava qualche mese fa ad almeno 68mila miliardi di dollari. Inutile dire che le speranze di chi credeva che l’ennesimo salvataggio pubblico potesse restituire fiducia al mercato si sono rivelate infondate, come in tutti i casi precedenti.
Siamo arrivati a circa 500 miliardi di dollari di pulizie di bilancio operate da grandi banche in un anno. Le stime del Fondo Monetario Internazionale parlano di altri 500 miliardi. Quelle ufficiose e riservate, parlano di circa 6 mila miliardi di dollari di prodotti strutturati derivati: come si vede, il mercato ha tutti gli elementi per non fidarsi. Se due grandi nomi del pantheon mondiale delle banche d’affari sono spariti, Lehman e Merril Lynch, nel Regno Unito HBOS si salva solo perché rilevata dai Lloyds, a Mosca il governo versa 44 miliardi di dollari a favore delle maggiori banche a picco sui listini, e il tutto avviene mentre l’Europa è tecnicamente in recessione dal mare del Nord al Mediterraneo, mentre il dollaro torna a scendere per effetto dei salvataggi pubblici e della sfiducia, e con l’avvaloramento dell’euro e la rigida politica dei tassi d’interesse della Bce la morsa si stringe intorno al nostro collo.
Avevamo ragione noi minoritari, ad ammonire da un paio d’anni a questa parte che era un intero modello di “fare finanza”, ad avviarsi all’Armageddon. Aveva ragione chi, come Giulio Tremonti, tra i frizzi e i lazzi iniziali di molti accademici e banchieri metteva in guardia sull’approssimarsi di una crisi epocale non “del” capitalismo, ma di “un certo” capitalismo. Ad arrivare a un rovinoso capolinea è l’intermediazione ad alta leva finanziaria e a bassa congruità di patrimonio di riserva. È l’errore al quale spalancò la porta la decisione americana, una quindicina d’anni fa, di equiparare alle banche commerciali le banche d’affari, senza allinearle però a una disciplina del patrimonio di vigilanza altrettanto rigorosa, e proporzionata agli impieghi accesi. Per effetto di quella svolta negativa, e della foresta pietrificata di una giungla di regolatori americani privi della visione d’insieme del mercato e assolutamente “captive” rispetto alla grande finanza speculativa, centinaia e centinaia di miliardi di dollari di profitti sono sempre più venuti, a quel modello di intermediazione finanziaria, approfittando dell’asimmetria informativa ai danni del mercato: impacchettando quantità crescenti di prodotti collateralizzati il cui rischio di controparte restava escluso dal proprio recinto patrimoniale, e ai quali, dopo il crollo dei subprime, il mercato non è stato più in grado di dare un valore credibile.
Siamo ben lontani dalla grande operazione di pulizia imposta dai danni di quel modello di finanza. In termini tecnici, è la finanza che ha considerato di poco conto il core tier1 bancario, il patrimonio di base costituito dalla somma dei capitali versati, dalle riserve, fondi rischi, emissioni obbligazionarie senza diritto di voto, titoli perpetui con facoltà di rimborso dopo dieci anni, le cui cedole possono essere sospese senza provocare un default, il tutto ponderato in base al rischio: la vera misura della forza finanziaria di qualunque banca o intermediario. E che giocavano invece soprattutto sul tier2 e tier3, traslando i rischi patrimoniali fuori dal proprio bilancio.
È a questo modello, che occorre apporre una vera e propria lapide tombale. Non significa affatto dire addio ai prodotti e elle tecniche sofisticate della finanza. Ma bisogna tornare a banchieri per cui il core tier1 è il più rigoroso dei propri indici di riferimento: in altre parole, a un modello di “fare banca” e “fare finanza” che sia molto più rigoroso rispetto alla quantificazione del rischio, e assai meno avido rispetto ai proventi da “finanza attraverso finanza”. Un sistema nel quale nel 2007 – anno già per due terzi di crisi – i banchieri di Lehman Brothers, Merril Lynch e Morgan Stanley si sono attribuiti da soli oltre 25 miliardi di bonus, stock options e stock grants, si commenta da solo.
E aiuta a capirne il collasso finale.
C’è un ultimo punto, che poi è il primo, per chi la pensa come noi. Il banchiere meno avido e più avverso al rischio per il rischio, il banchiere capace di esaminare progetti industriali e di valutarne il merito di credito prima di scontare solo i miliardi che si possono realizzare piazzando derivati che ticchettano come bombe a tempo, è il banchiere per il quale l’intermediazione finanziaria è centrata sull’uomo e sulla persona, sull’impresa come ambito di espressione del suo talento e come strumento di benessere e di vita degna per il maggior numero, sul giusto ritorno del capitale che non sconta a lungo tassi a doppia cifra senza sconfinare nell’azzardo puro e rovinoso. È il banchiere al servizio dell’uomo, quello che bisogna tornare a scoprire, rispetto all’uomo e al denaro al servizio del banchiere, di cui questa crisi è il doloroso epilogo ancora purtroppo tutto da scrivere.