La crisi in corso ha due essenziali aspetti: il primo è quello di una crisi per scarsità di offerta di beni strumentali, di materie prime, di cosiddette commodities: abbiamo avuto alle nostre spalle anni di scarsi investimenti industriali e di alti investimenti finanziari a breve. Questo enorme trasferimento di ricchezza dall’industria alla finanza, con rendimenti a breve, ha generato una colossale bolla dei valori azionari che non poteva che sgonfiarsi allorché le prime avvisaglie del rallentamento della crescita negli USA e quindi dei cosiddetti “paesi emergenti” si dovevano far sentire per l’inevitabile ciclicità della crescita economica.
L’inflazione è divampata per scarsità di offerta e crescita della domanda. Il secondo aspetto è stato ed è quello del fallimento delle regole di controllo interno delle cattedrali bancarie. La devastazione è potente.
La radice di essa risiede nella caduta verticale dell’elemento donativo esistente un tempo nella direzione manageriale. Si lavorava per l’impresa e non per ricevere un premio in denaro commisurato ai valori azionari anziché agli obbiettivi di lungo termine. La vulgata prevalente, secondo la quale gli esseri umani hanno solo comportamenti egoistici e sono orientati solo dall’interesse materiale, ebbe fini devastanti. Il fine dell’impresa non era più crescere e dare occupati, fare dei bei prodotti, offrire dei buoni servizi alle persone e, per questo, fare profitti. Doveva, invece, essere quello del profitto tout court: dare dividendi agli azionisti grazie all’aumento del valore delle azioni. Come ottenere ciò? Semplice. Nominando tutti proprietari, anche i manager.
Tutti correvano, quindi, a comprare azioni. Generazioni di consulenti e di manager, che non si chiamavano più dirigenti, non si formavano più con l’etica della fedeltà al lavoro e all’impresa, ma nel culto dell’arricchimento rapido e immediato. Le azioni salivano anche per loro. Con tutti i metodi possibili. Ci sono dei debiti? Essi appesantiscono i bilanci? È difficile esigerli e ricondurre quindi i conti alla loro naturale veridicità che appesantisce i risultati e fa cadere il corso azionario? Ebbene, vi è una soluzione. Si vendono i debiti a società che s’incaricano di esigerli, oppure li vendono a loro volta. Si creano strumenti finanziari che non sono rischiosi per coloro che li acquistano: sono nati per coprire i rischi da debito e da investimento; ma essi si rivelano pericolosi allorché i tassi mutano di segno e rischiano allora, quegli stessi strumenti, di provocare una perdita per coloro che li hanno acquistati. L’etica degli affari, che s’impara sul campo grazie all’esempio di dirigenti virtuosi e che nessun breve master insegna, dovrebbe imporre di non vendere più questi strumenti finanziari, così come dovrebbe imporre di non far sottoscrivere mutui non pagabili perché non si hanno garanzie da impegnare. Ma se non li faccio sottoscrivere o se non si vendono più quei prodotti, i miei indicatori di premio scendono, le mie stock options diminuiscono di valore perché il titolo scende.
Che fare? Vendere, continuare a vendere, far sottoscrivere, continuare a far sottoscrivere. Purché funzioni la cosiddetta leva finanziaria. Realizzo gli affari con forte indebitamento e le azioni salgono alle stelle e così le mie stock options ch’io stesso, manager o gruppo di manager, mi sono assegnato. Viene poi l’ora della verità: i creditori e i debitori, in ultima istanza, non riescono a rendere solvibili i loro beni e le loro attese, i valori borsistici e immobiliari crollano, i titoli azionari si divaricano dai valori fondamentali produttivi: ecco la crisi finanziaria che vede fallire cattedrali della circolazione monetaria. Il re è nudo. La strage degli innocenti è compiuta. Le ceneri cadono sui campi. I corpi si seppelliscono. Si ricomincia: ma si deve cambiare.