Gli esuberi della vecchia Alitalia rispetto alla nuova della cordata Cai-Banca Intesa costituiscono l’ultima spiaggia del partito “irrealista”. Lo dico con sincero rincrescimento per i dipendenti del vecchio carrozzone di Stato che ci andranno di mezzo. Essi sono incolpevoli di tutto, e comprendo benissimo che il sindacato faccia tutto il possibile e anche l’impossibile per tentare di alleviare le conseguenze negative che per migliaia di loro si creano dall’esito fallimentare della vecchia Alitalia di Stato. Ma criticare gli esuberi dell’unica soluzione che c’è ormai a portata di mano, per evitare il semplice fallimento complessivo dell’intera azienda e la cassa integrazione per tutti e 18 mila, significa solo ripetere lo stesso errore che della fine di Alitalia è integralmente responsabile.



È stato per irrealismo colpevole, che si è giunti a questo segno. Personalmente da anni invitavo l’azionista pubblico di Alitalia a prendere atto del suo gravissimo fallimento, e a risolvere il bubbone del carrozzone pubblico passando per una soluzione di fallimento-lampo simile a quello della vecchia Swissair, che in fine settimana si vide dimagrita di colpo per passare nella parte profittevole ai tedeschi di Lufthansa. Ma nessun azionista pubblico italiano, né di centrodestra né di centrosinistra tra i vari governi succedutisi a Palazzo Chigi negli anni, ha mai voluto sentirci da quell’orecchio. Una chimera da liberisti sperticati, veniva definita quella soluzione.



Oggi, si sprecano i critici del Progetto Fenice, elaborato da Banca Intesa e dalla sua compagine di 16 azionisti privati italiani, sostenendo che si tratta di violenza al mercato a differenza della soluzione Air France. Insorgono, i più, in nome del leso mercato. Dimenticano che la soluzione di mercato non l’ha mai voluta sul serio proprio nessuno, né la sinistra né la destra, perché comportava contemporaneamente la rinuncia all’italianità e tagli profondissimi nella carne dell’ex compagnia pubblica. Quanto alla proposta di Air France cara a Prodi, e ritirata poi di fronte ai sindacati e allo schizzare verso l’alto del barile di petrolio, da tutto nasceva tranne che da una corretta procedura di mercato: era l’unica ammessa alla data room di Alitalia, Air France, e in cambio della sua gentile disposizione a scegliere quanto le interessava di Alitalia, Palazzo Chigi aveva rimosso il precedente management italiano per sostituirvene uno nuovo, esplicitamente incaricato di adottare tutte le misure che i francesi gli dettavano riservatamente, per evitare poi di doversi assumere il ruolo di “cattivi”, a cominciare dall’azzeramento di Malpensa.



A furia di procrastinare e una volta saltata la trattativa privata con i francesi, la soluzione attuale è l’unica possibile per evitare il fallimento, i libri in tribunale, e tutti i dipendenti per strada.

Non mi piace, che alcuni soci della nuova compagine siano anche concessionari pubblici. Ammetto anche che la sospensione temporanea delle norme antitrust, per unire insieme il meno peggio della vecchia Alitalia e di AirOne, non è una misura di quelle che facciano saltare di gioia un liberista convinto come me. Ma chi non riconosce come positivo che vi siano finalmente imprenditori italiani disposti a rischiare propri denari, deve essere inguaribilmente contagiato dal virus del “tanto peggio, tanto meglio”. Siamo alla commedia, se pensano davvero che Colaninno e tanti altri si muovano a un passo simile perché Berlusconi ha puntato – addirittura – una pistola alla loro tempia. Gli esuberi saranno tanti, e a dire il vero la stessa profittablità possibile della nuova Alitalia dipende dal fatto che i suoi organici siano i più magri possibile. Perché anche la flotta della nuova Alitalia resta schiacciata troppo sul breve e medio raggio, per potersi candidare credibilmente ai profitti che si realizzano sul lungo, a parità di passeggeri per km: ed è per questo che serve l’alleanza con Air France o Lufthansa e meglio ancora sarebbe se fosse con British Airways, ma senza resa unilaterale. Tuttavia, per gli esuberi ci sono sette anni di percorso deliberato con ammortizzatori sociali, e un nuovo workfare con incentivi al riaddestramento professionale. Non è poco: ed è tanto, anzi, che nel governo si sia levato un no netto alla loro riassunzione nell’ipertrofico comparto pubblico.

È un prezzo amaro: ma al fallimento dello Stato, non alla voracità degli incolpevoli privati.