Non esiste nessun legame diretto tra la morte clinica del mercato azionario russo e il riconoscimento dell’Ossezia e dell’Abchazia.
Se non fosse per la bufera mondiale che imperversa e perché è arrivato il momento di pagare il conto dell’arrischiato incremento degli anni scorsi, ce la saremmo potuta cavare benissimo. E anche con l’Ossezia e l’Abchazia. Avremmo potuto tirare avanti tranquillamente, magari non in maniera eccelsa, ma senza passarcela neppure troppo male.
Tanto più che in Russia a giocare nel mercato fondiario sono così in pochi, che le sue oscillazioni non colpiscono direttamente l’uomo della strada. Colpiscono gli americani, che in questo mercato hanno investito strategicamente denari considerevoli. Solo la situazione mondiale ha indotto gli investitori ad insospettirsi al momento del rifiuto della WTO come obiettivo di negoziati, perché noi non viviamo nella repubblica delle banane, e la carota si usa solo con gli asini.
L’uomo della strada è addirittura contento; per lui la WTO non comporta alcun beneficio, anzi le limitazioni in campo agricolo sono svantaggiose. E che cosa importa al banchiere americano che investe sul mercato russo, se noi entriamo o no nella WTO? Che cosa siamo, la repubblica delle banane o dei cedri? Lui se ne infischia di tutte le strategie di sviluppo della Russia. Gli basta che i profitti siano alti, e l’instabilità monetaria, possibilmente, bassa. Quindi, bisogna riconoscerlo: le decisioni degli ultimi mesi, che in gran parte sono state imposte dalle decisioni di tutti gli ultimi anni, di per sé automaticamente, non comportano necessariamente il crollo del mercato. Purtroppo però è vero anche il contrario. Non ci fossero state, la frana non si sarebbe verificata in queste proporzioni, non avrebbe avuto questa violenza ingovernabile. E questo perché le decisioni degli ultimi mesi non si sono basate sulle possibilità del Paese, non rispondevano alle sue finalità reali, hanno rafforzato la sensazione di rischio, hanno polverizzato l’energia del potere e hanno distolto dal prendere le dovute misure negli ambiti che realmente influiscono sulle sorti della Russia.
In altri termini, hanno preparato le condizioni perché la Russia risultasse l’anello più debole nella grave crisi finanziaria. A proposito delle possibilità. C’è una regola, semplice, che è la pace. Se hai un mercato fondiario manovrato dall’estero, dove i soldi sono principalmente di altri, cerca di litigare con il resto del mondo solo nel caso in cui sia impossibile far diversamente. Ad esempio, se ammazzano i civili. Se invece si può far a meno di litigare, sta’ fermo. L’orgoglio patriottico (“gliel’abbiamo fatta vedere!”), darà anche soddisfazione, ma è una soddisfazione totalmente irresponsabile. Non sarà questo sentimento a rispondere delle conseguenze. Del fatto che gli investitori impauriti faranno marcia indietro. Nei problemi dell’ambito del petrolio. Nel campo tributario. Nella situazione dei trasporti aerei. Nei costi dei missili Bulava quando abbiamo dei carri armati obsoleti. Come dice il proverbio: sta’ attento a non fare il passo più lungo della gamba. A proposito delle decisioni prese: nella riunione convocata urgentemente il 18 settembre Medvedev ha pronunciato una frase cruciale. «il potere oggi ha come obiettivo prioritario sostenere la stabilità finanziaria». E ha comunicato lo stanziamento di mezzo trilione di rubli a sostegno del mercato. E la riduzione delle riserve. E la diminuzione dei dazi sull’esportazione del petrolio.
Ma erano parole da pronunciare ieri, l’altro ieri, o fors’anche una settimana fa. Il fatto è che ieri il presidente era interamente assorbito dall’accordo di amicizia con l’Abchazia, come si fa a trattarla diversamente dall’Ossezia meridionale!
Non faccio assolutamente dell’ironia, constato semplicemente la triste realtà. Questo processo che ormai si osserva da tempo è troppo accentuato per poterlo esautorare. E come tale è inevitabile. Perché con una decisione politica si può aprire un vaso di Pandora. Oppure una gran matrioshka. Da cui poi bisogna continuamente tirar fuori di volta in volta altre matrioshke, sempre più piccole. E non si può più fermarsi, finché non si arriva alla fine. Prima di arrivare alla fine d’anno salteranno altri grossi istituti; la gente inizierà a cercar lavoro; il mercato del lavoro comincerà a calare i prezzi. Sia per quanti sono alla ricerca, sia per quelli che l’hanno già trovato. I crediti si insabbieranno, i prezzi degli immobili cominceranno inevitabilmente a scendere, ma saranno anche di meno i compratori solvibili pure a questi prezzi inferiori. Le banche medio-piccole vacilleranno, l’inflazione avrà un’impennata.
Ormai, tutto questo è inevitabile. Ma le proporzioni della calamità sarebbero state completamente diverse, se la politica non avesse servito ambizioni imperialistiche a scoppio ritardato, ma piuttosto i reali bisogni della popolazione russa. Del resto l’America, che i governanti russi amano tanto additare (condannandola e invidiandola), all’inizio si è preoccupata si assicurare al cittadino americano un livello di vita dignitoso, e poi si è buttata a riformare tutto il mondo (magari era meglio che si fermasse alla prima fase). Conclusione. Quel che stato è stato, non si può tornare indietro, ma solo tentare di porre qualche rimedio. Si può però cercare di salvaguardarsi in futuro dal ricreare i problemi attuali, sviluppando la politica interna, all’insegna di un sano egoismo preoccupato di salvaguardare gli interessi della nazione.