Dottor Paolazzi, l’ultimo rapporto realizzato dal Centro Studi di Confindustria sullo stato di salute economico del nostro paese non è molto confortante: parla apertamente di recessione. Qual è il quadro che emerge dalle vostre ultime stime?
Il dato che sintetizza il quadro è una riduzione del Pil dello 0,1% nel 2008. È la terza recessione dal dopoguerra, dopo quella del 1993, seguita alla crisi della finanza pubblica italiana, e dopo quella del 1975, seguita al primo choc petrolifero. È una contrazione del Pil che proviene dagli investimenti e dai consumi, che mostrano un decremento dello 0,1% ed è la seconda volta dal dopoguerra che la spesa delle famiglie arretra. Tuttavia cerchiamo di dare un messaggio improntato all’ottimismo e prevediamo una crescita l’anno prossimo, con un tasso di crescita medio annuo che appare modesto, pari cioè allo 0,4%, ma è un dato che “inganna” perché per ottenere questo 0,4 occorre una accelerazione non piccola nel corso dell’anno, per chiudere il 2009 – data in cui supponiamo l’aggancio alla ripresa internazionale – a una velocità dell’1,3%.
Di solito l’Europa e l’Italia entravano in crisi a distanza di 7-8 mesi dalle crisi americane. Qual è il rapporto tra la crisi finanziaria che stanno attualmente attraversando gli Stati Uniti e la nostra economia reale?
In realtà gli Usa non sono in difficoltà per una crisi di tipo finanziario: la frenata americana origina dallo scoppio della bolla immobiliare, che a suo tempo aveva sostenuto e “drogato” i consumi, fino a portare a un tasso di risparmio negativo. Negli ultimi due anni le quotazioni hanno fatto mancare un punto di crescita al Pil Usa. Il rallentamento americano è stato poi accentuato dal forte aumento del prezzo del petrolio, che si è rivelato uno choc importante, tanto da portare a una recessione degli Usa nel trimestre in corso e in quello successivo.
C’è un nesso causa-effetto tra la crisi Usa e la nostra? Dobbiamo attenderci di subirne le conseguenze?
Rispetto a quanto accadeva in passato, la nostra crisi è cominciata prima di quella americana e anche prima del rallentamento che adesso si sta osservando in altre economie europee, come la Germania. La speranza – e anche la previsione – è che l’anno prossimo il prezzo del petrolio scenda intorno ai 90 dollari al barile. Significherebbe una riduzione rapida dell’inflazione, un beneficio ai consumi e quindi una ripartenza altrettanto rapida dell’economia italiana, agganciata alla ripresa internazionale. Questo aggancio è subordinato alla capacità dell’intero paese di assecondare la trasformazione in atto nel settore manifatturiero. Questa trasformazione ha fatto recuperare quote di mercato sulle esportazioni mondiali. Ma bisogna ricordare che il 70% dell’economia italiana è costituito da servizi: un aumento della crescita passa perciò da una maggiore dinamica del terziario, che può esser ottenuta con iniezioni di concorrenza e con una maggiore efficienza, a cominciare dalla Pubblica amministrazione.
Le nostre imprese sono state capaci di riposizionarsi strategicamente nel mutato contesto internazionale e hanno mostrato segni di grande vitalità. Cosa dobbiamo aspettarci?
Le nostre imprese manifatturiere continuano a trasformarsi, mostrando dinamismo e versatilità. Non a caso il tasso di internazionalizzazione è salito dal 13% del 2000 a circa il 20% nel 2006, mentre è previsto che raggiunga il 25% l’anno prossimo. Però è anche vero che il nostro sistema manifatturiero è solo una fetta dell’economia italiana: il 70% del valore aggiunto, come ho detto, viene dai servizi. Questo comporta che per agganciare la ripresa, per quanto forte possa essere la spinta delle esportazioni e del manifatturiero, occorre sostenere l’economia non tanto attraverso aiuti alla domanda, ma attuando una politica dell’offerta. E soprattutto attraverso una vera liberalizzazione dei servizi.