Non è esagerato, per chi si occupa di economia, definire “storica” la settimana iniziata. Al pari di quella che l’ha preceduta, che i manuali ricorderanno per i crack (Lehman Brothers, ma non solo) i salvataggi in extremis (Aig), interventi senza precedenti da parte delle autorità monetarie, il Tesoro Usa addirittura costretto ad intervenire a favore dei riscatti dei fondi monetari, cioè dell’investimento più sicuro che si possa immaginare per il pubblico dei risparmiatori.



Eventi inediti, almeno per le dimensioni del fenomeno. E che rappresentano la punta estrema di una crisi finanziaria che ha contagiato l’economia reale. O, se preferite, una crisi Usa che ha contagiato il resto dell’economia globale esportando recessione. Anzi, l’economia Usa finora è sfuggita, grazie alla “droga” degli sgravi fiscali, alla recessione vera e propria (anche se i segnali delle ultime settimane, dall’aumento della disoccupazione alla caduta della produzione industriale) non promettono nulla di buono. Ma la recessione “tecnica” (che si verifica dopo due trimestri di pil in calo) ha già colpito l’Italia e, secondo i calcoli di Nouriel Roubini, almeno altre dieci economie dell’area Ocse.



Da oggi, però, si entra in una fase nuova, inedita per le economie occidentali. Il governo Bush, su impulso del segretario al tesoro Henry Paulson, ha chiesto al Congresso la licenza di investire, con la massima discrezionalità, 700 miliardi di dollari a protezione del sistema. È una rivoluzione: non si tratta, infatti, di una semplice iniezione di quattrini nell’economia. O di un progetto di salvataggio mirato a un settore o a un’area geografica sotto il controllo del Congresso. No, il Tesoro chiede piena libertà d’azione.

Nei prossimi mesi Paulson potrà, in caso di approvazione del progetto, intervenire dove meglio riterrà opportuno, salvando le aziende a rischio secondo il suo giudizio. La situazione, lasciano intendere da Washington, è così grave che non si possono nutrire scrupoli di alcun genere. È una forma di gigantesca socializzazione delle perdite, per giunta a carico del contribuente (il debito complessivo, a fine mandato Bush sarà salito a 11.200 miliardi di dollari).



Quale sarà l’impatto sull’economia globale di questa terapia? Nel breve, senz’altro le Borse reagiranno. Il minor rischio favorirà la ripresa dei titoli azionari, probabilmente ci sarà meno pressione sui mercati obbligazionari, data l’inondazione di nuova liquidità. Il rischio? La terapia americana assomiglia a quella adottata in Giappone all’inizio degli anni Novanta, con il risultato di “narcotizzare” l’economia, a danno dei consumi, della fiducia e degli investimenti. In sintesi, la Fed ed il Tesoro ritengono che sia inevitabile farsi carico dei problemi di tutto il sistema, per evitare un crollo rovinoso per tutti. Ma questo comporterà un costo rilevante in termini di crescita. E non solo per gli Usa.

Intanto, fenomeno non da poco, il prezzo del greggio scende. Nonostante la guerriglia in Nigeria, le tensioni sul fronte del Caucaso, e altre motivazioni “fondamentali”. È un fatto positivo? Fino a un certo punto. Il calo del greggio, accompagnato dal ribasso di altre materie prime, sta ad indicare il calo progressivo da parte della domanda: l’economia rallenta un po’ ovunque, così, assieme alle richieste, scendono i prezzi. Si profila, perciò, l’ombra della deflazione (altro fenomeno alla giapponese) che indica proprio il processo di riduzione generalizzata dei prezzi, di tutti i prezzi, ivi compreso quello del lavoro, perché in una situazione in cui occorre essere competitivi in uno scenario di prezzi al ribasso non è affatto escluso il ribasso dei salari.

Insomma, i venti in arrivo dagli Usa non promettono nulla di buono per l’economia italiana. La terapia? La strada giusta passa per l’Europa, ovvero per i grandi progetti infrastrutturali che possono portare a significativi aumenti di produttività. Ma non è il caso di illudersi di poter passare indenni dai guai americani o di gonfiarsi il petto perché “oggi stiamo meglio degli altri”.