La drammatica situazione in cui è precipitato il mercato finanziario americano, nel mettere a nudo i limiti di un modello che molti teorici e pratici hanno ritenuto fino ad oggi la più significativa espressione di una perfetta economia di mercato, induce a cercare di individuare cosa non abbia funzionato, soprattutto per trarne utili insegnamenti per il futuro di tutti i sistemi finanziari evoluti. A tal fine, ci poniamo due quesiti che peraltro non intendono esaurire tutti i dubbi emersi dalla vicenda americana:
1) In che misura ha contribuito al tracollo il comportamento dei manager a capo degli intermediari che hanno subito ingenti perdite
2) In che misura sono risultate efficaci le regole di controllo sul sistema finanziario americano destinate soprattutto a salvaguardare il meccanismo dei pagamenti e cioè la funzione monetaria delle banche di deposito.
Di certo si può affermare, sia pure con “il senno di poi” che non poteva continuare un sistema di intermediari in cui i manager si ponevano come target prevalente la ricerca spasmodica di elevati profitti di breve periodo, senza assumersi la responsabilità dei rischi conseguenti alle operazioni innovative messe in atto, ma affidandosi ciecamente ed esclusivamente a algoritmi matematici di risk management rivelatesi inadeguati a valutare tutti gli aspetti di un equilibrato rapporto rischio-rendimento, di fronte all’accresciuta volatilità dei tassi e dei corsi di borsa.
Per di più il modello si reggeva sull’erogazione di elevatissimi incentivi economici ai banchieri più produttivi o più ingegnosi nell’introdurre financial innovations molto lucrative per gli intermediari, facendo perdere di vista che la creazione del valore delle imprese, pur essendo un legittimo obiettivo da perseguire, richiede coordinazioni reddituali, finanziarie e patrimoniali durevoli nel tempo. Ma anche i regolatori del sistema finanziario americano hanno mostrato di non essere in grado di prevenire i fenomeni di destabilizzazione degli intermediari con caratteristiche diverse dalle banche commerciali, capaci anch’essi di provocare crisi sistemiche non meno nefaste di quelle causate da un’azienda di credito che raccoglie il risparmio e crea moneta.
Tant’è che solo ex post le autorità americane si sono mosse per salvare il salvabile con iniezioni di liquidità (anche con forme irrituali di credito di ultima istanza) che in passato si ritenevano giustificate, sotto il profilo macroeconomico, solo per garantire i depositanti e non gli investitori.
Cosa potrà succedere in Italia in conseguenza della crisi americana è una di quelle domande a cui potrebbe rispondere con certezza solo chi dispone di doti profetiche. A chi ne è privo è già confortante constatare che nel nostro mercato finanziario l’attività di finanza creativa e speculativa delle banche d’affari non ha la rilevanza quantitativa del caso americano e che il nostro sistema è, per la gran parte, costituito da banche commerciali con solide basi patrimoniali, le quali incentrano la loro operatività sulla classica funzione di intermediazione creditizia, retail e corporate. Una volta tanto l’essere meno “avanzati” di altri sistemi è risultato un vantaggio. D’altra parte la regulation italiana sulle banche e sulla borsa sembrerebbe capace di prevenire fenomeni di crisi sia di singoli soggetti che sistemiche meglio di quanto è successo negli USA, forse perché è rimasta per certi aspetti di tipo strutturale, ossia atta ad incidere, magari indirettamente, sull’azione degli istituti di credito, nonostante l’accresciuto grado di libertà decisionale consentito ai banchieri dall’attuale legislazione.
Tuttavia, ci sembra irrealistico concludere che il nostro Paese riesca ad essere completamente immunizzato dai contraccolpi della crisi americana perché è dimostrato che un contagio è sempre possibile, specie in un modo globalizzato in cui tutti i mercati finanziari sono tra loro strettamente collegati e reciprocamente influenzabili.