Negli ultimi venti anni, in assenza di un modello da opporre all’ordine mercantile e liberale, affermatosi dopo la dissoluzione delle principali ideologie politiche e sociali, la libera circolazione dei prodotti e dei servizi, delle tecnologie e dei capitali se da un lato ha prodotto una crescita economica a beneficio dell’intera umanità, dall’altro ha generato una forma di capitalismo caratterizzato da molteplici squilibri e dal primato della rendita dei capitali e della tecnofinanza. In poche parole, si è delineato un capitalismo finanziario globalizzato che ha dettato legge all’economia reale e che si è disinteressato di quella che avrebbe dovuto essere la giusta convergenza fra logiche finanziarie e logiche industriali.
I principi fondamentali della finanza aziendale, ci insegnano che l’ammontare di un investimento finanziario dovrebbe coincidere con la somma dei suoi rendimenti futuri, attualizzati ad un tasso che riflette il costo della rinuncia alla liquidità immediata. Il tasso di attualizzazione è il rendimento minimo che l’investitore esige per preferire l’investimento alla liquidità e deve essere superiore al tasso di interesse assicurato dai titoli di Stato in modo da comprendere anche un premio per il rischio nell’investimento che sarà tanto maggiore quanto maggiore è la rischiosità del titolo sottostante. Tasso di interesse e premio per il rischio rappresentano il costo del capitale.
In un mercato efficiente, in presenza di rendimenti superiori al costo del capitale di un gruppo di investitori, la domanda di un titolo aumenterà fino a che l’aumento del prezzo ristabilisca l’uguaglianza. Una sano ed equilibrato rapporto fra finanza e impresa è indispensabile alla crescita economica ed è elemento essenziale alla creazione di valore, a permettere ai talenti di esprimere le proprie potenzialità ed è quindi in grado di creare esternalità a beneficio dell’intera collettività.
Negli ultimi anni gli investitori istituzionali hanno fondato la propria sopravvivenza su una forte volatilità dei titoli i quali dovevano assicurare rendimenti medi annui nell’ordine del 15% a fronte di una crescita globale dell’economia notevolmente inferiore (2-3%). È quindi lecito sostenere che talvolta la sostenibilità degli obiettivi di redditività da questi perseguiti è stata garantita da bolle speculative e da successivi bruschi crolli dei mercati, resi ancor più gravi dalla ricerca sistematica dello shareholder value che, in presenza di bassa inflazione, esigui tassi di interesse e alti livelli di liquidità ha generato una sorta di inflazione dei titoli finanziari che ha reso il valore del capitale particolarmente elevato. E la necessità di assicurare alti rendimenti al capitale, ha costretto i capitani d’impresa a ricercare i fattori della produzione meno costosi nei Paesi asiatici in via di sviluppo, privilegiando forme di competitività spesso miopi e minacciando l’equilibrio sociopolitico delle popolazioni la cui ricchezza è stata messa in discussione. Un tale squilibrio, l’impossibilità di perseguire l’innovazione e politiche industriali di lungo periodo, si è poi tradotta in un abbassamento dei tassi di crescita e quindi nell’incapacità di produrre nuova ricchezza per l’intero sistema.
Vediamo ora cosa ha ulteriormente aggravato la situazione. Negli Stati Uniti esisteva una regola che imponeva alle famiglie di non spendere più del 30% del proprio reddito per pagare la rata del mutuo. Con l’introduzione di forme diverse dai mutui a reddito fisso e con il moltiplicarsi di prodotti a tasso variabile, tale regola ha iniziato ad essere aggirata. Ad ogni modo il rischio del prestatore ad abbassare la qualità dei mutui aumentava il costo del medesimo e vi era quindi una certa attenzione a valutare la capacità del prenditore di onorare il proprio debito. Ad un certo momento si è creato il mercato delle cartolarizzazioni e i mutui, una volta erogati, venivano accorpati e venduti sotto forma di titoli nel mercato mobiliare. In questo modo le banche hanno iniziato a trasferire il rischio di inesigibilità dei mutui nei mercati finanziari. Nel contempo il mercato immobiliare ha continuato la sua ingiustificata crescita (che peraltro ha generato distruzione di valore nell’assorbire ricchezza destinabile ad altre attività produttive) e, in assenza di un incentivo a valutare la capacità del prenditore di onorare la propria obbligazione, ha raggiunto livelli insostenibili e ha indotto chiunque a perseguire il miraggio dell’acquisto della propria casa grazie all’offerta di mutui con piani di ammortamento difficilmente comprensibili da parte del debitore.
In un mercato attento ed equilibrato il costo di tali trasferimenti avrebbero dovuto aumentare in ragione del rischio di inesigibilità. I gestori dei fondi, solitamente remunerati sulla base dei rendimenti annuali hanno invece iniziato ad acquistare questi e altri titoli derivati a prezzi troppo alti rispetto al rischio sottostante, confidando sul fatto di trasferire tale rischio sui propri clienti, circostanza che comunque gli avrebbe permesso di guadagnare lo stesso. Con un utilizzo aggressivo della leva finanziaria, tali titoli hanno iniziato ad essere compravenduti sul sistema e poiché i gestori sono solitamente remunerati in ragione dei guadagni del fondo, mentre non partecipano alle perdite, in poche annate diversi manager hanno avuto la possibilità di diventare particolarmente ricchi. Un tale sistema avrebbe avuto vita breve se non fosse stato generalizzato e avrebbe di conseguenza permesso al mercato di isolare i gestori senza scrupoli. Se il cerchio si fosse chiuso in pochi anni, tutti gli investitori avrebbero convogliato i propri risparmi in titoli sicuri creando una crisi di liquidità.
Nel contempo, la Fed è intervenuta con misure volte a proteggere gli investitori dalle perdite, con le cd “Greenspan put”, che però hanno avuto l’effetto di impedire al mercato di penalizzare gli effetti devianti. Nel frattempo il mercato dei titoli cartolarizzati ha assunto dimensioni planetarie anche grazie al fatto che, sin dagli anni ‘90, negli Stati Uniti la regolamentazione bancaria ha permesso alle banche di affari di svolgere alcune attività delle banche commerciali senza allinearle agli obblighi di patrimonializzazione di queste ultima. Ciò ha permesso alle imprese di investimento di abusare della leva finanziaria generando rapporti fra impieghi e patrimonio di vigilanza troppo elevati rispetto ai criteri di sana e prudente gestione.
I continui miraggi di guadagni elevati da parte dei manager, remunerati in base alle performance annuali, l’inerzia dei regolatori e delle autorità di vigilanza e la continua immissione di liquidità nel sistema ha mascherato attivi inesistenti che si sono materializzati negli ultimi mesi con le note insolvenze che hanno messo a rischio l’intero sistema finanziario e hanno prodotto ingenti perdite ai risparmiatori. A ciò si aggiunga la crisi di fiducia fra gli stessi istituti di credito, la carenza di liquidità del sistema e la maggiore selezione nella concessione dei crediti alle imprese che è destinata a penalizzare gli investimenti.
Fortunatamente gli istituti bancari del nostro Paese non presentano le criticità di quelli di molti altri Paesi occidentali, il che ci permetterà di uscire da questa crisi scontando un pedaggio meno oneroso. Certo è che il libro di Giulio Tremonti “La Paura e la Speranza” non era così lontano dal presagire quanto stava per accadere e anche per questa ragione i rimedi indicati dovranno suscitare maggiore attenzione da parte di operatori e uomini di governo.
La finanza dovrà ritrovare la giusta collocazione nel sistema economico quale polmone necessario a favorire la crescita ma dovrà ispirarsi realmente a principi di comportamento eticamente corretti. L’etica negli affari riguarda valutazioni e obblighi. Da essa dipende l’entità della remunerazione del capitale di rischio, ma poiché in economia occorre pensare al profitto, i sistemi di vigilanza esterni e i sistemi di controllo interni devono proteggere le imprese dall’avidità e dall’imperfezione umana.
Per il futuro occorrerà lavorare all’ipotesi di un legislatore rigoroso, preferibilmente sovranazionale, che scriva poche regole tenendo presente gli interessi e le esigenze che vengono dal basso evitando di commettere gli errori del passato dove si è tentato di risolvere i problemi introducendo tante inutili norme calate dall’alto che hanno sortito l’effetto di tutelare gli interessi di pochi privilegiati e di deprimere gli interessi economici generali.