Nessuno ha più il coraggio di dire che «il peggio è alle spalle». Anzi. Molti temono che il peggio si possa materializzare, giorno dopo giorno, per mesi. Nessuno ha più il coraggio di sostenere che «la crisi riguarda l’America, l’economia europea è sana». Anzi. Molti guardano con apprensione crescente al bollettino di guerra in arrivo dalla Gran Bretagna, dall’ex locomotiva spagnola. O, peggio, al tonfo della Germania, il nostro principale partner. Presto, probabilmente, nessuno avrà il coraggio di dire che l’Italia «sta meglio degli altri», anche grazie alla maggior solidità delle banche italiane.
È vero, i nostri “vecchi” istituti sono parzialmente immuni dal vizio delle cartolarizzazioni estreme o dei contratti in derivati con il colosso assicurativo Aig, abbondantemente sfruttati da Deutsche Bank, Fortis o Barclays (per citare alcuni dei colossi europei) per aggirare i requisiti minimi di capitale imposti dalle autorità di controllo.
Le banche italiane sono più sane, ma fanno parte a pieno titolo di un circuito internazionale fortemente interconnesso: l’aumento del costo del denaro, il calo della fiducia, la fuga generalizzata dal settore mutui e la brusca frenata dei settori più redditizi per il conto economico (vedi il credito al consumo) colpiscono pure loro.
Infine, nessuno ha più il coraggio di sostenere che ci «salveranno gli emergenti». O che è «tutta colpa del petrolio». Anzi. Il calo del greggio, che ha conseguenze pesanti sulle economie dei produttori, lanciati verso piani di investimento importanti anche per le sorti del Made in Italy, annuncia la prossima deflazione: un male oscuro, cioè prezzi in calo (ma anche fatturati, utili e salari) che l’Occidente non conosce in pratica dagli anni Trenta.
L’orizzonte della crisi, dopo il no del Congresso al piano Paulson, è davvero nero profondo. Per più ragioni. Primo, perché fino a ieri si aveva almeno la consolazione di poter contare su una leadership forte, sostenuta da entrambi i candidati alla Casa Bianca. Una leadership, quella del segretario al Tesoro Henry Paulson, che non era affatto esente da pecche. Ma che almeno aveva avuto il merito di presentare un piano robusto e coraggioso per scongiurare il disastro. Permettendo, tra l’altro, un finale di corsa alla Casa Bianca ordinato, se non sereno.
Ma il quadro non ha retto. Sono stati i repubblicani, in maggioranza, a rivoltarsi contro un progetto che segna il più massiccio intervento dello Stato nell’economia Usa. Perché regalare questo assist ai democratici alla vigilia del voto? Sull’altro fronte, molti democratici hanno bocciato il progetto per opposti motivi: perché approvare il salvataggio dei magnati di Wall Street senza nulla concedere alle masse che rischiano di perdere casa e posto di lavoro?
Preoccupazioni comprensibili, soprattutto ad un mese da un voto che riguarda anche una bella fetta del Parlamento. Ma, nel giro di una giornata, lo spirito di “Pearl Harbour” evocato da Warren Buffett al momento di intervenire con cinque miliardi di dollari in Goldman Sachs, si è trasformato nello spiritello di un’Alitalia qualsiasi, con lo strascico di malumori e di reciproche accuse. Peccato che il rischio per l’economia globale sia ben più elevato che una serrata di Malpensa o di Fiumicino.
Che accadrà, si chiedono tutti? L’unica terapia possibile, negli Stati Uniti, passa dal recupero di fiducia nei prodotti accatastati nei magazzini delle banche o venduti alle controparti commerciali (Pechino ha già vietato alle banche cinesi di trattare con gli istituti Usa). Non sarà facile, viste le insidie nei sub prime, siv, conduit o carte di credito per non parlare dei prestiti sull’auto.
Solo lo Stato può intervenire. È inevitabile che, prima o poi, almeno per il breve, si ricorra ad un piano Paulson bis. Poi, con il nuovo presidente, occorrerà una svolta. Magari un grande fondo che s’impegni a ricomprare le case e a riaffittarle agli attuali inquilini dietro affitto. Chi pagherà? Chi ha i soldi, ovvero i partner politici di Washington, asiatici in testa. Che aspettano un interlocutore più credibile di Bush.
E l’Europa? La finanza europea, inglese, francese tedesca o svizzera, non ha i problemi di portafoglio dei competitors americani. Ma ci vogliono capitali freschi, tanti capitali (almeno 200 miliardi sostiene Daniel Gros) che dovranno essere forniti dalla Bce. E che andranno a scapito dello sviluppo, compreso il fondo delle infrastrutture caro a Giulio Tremonti.
Ma allora, non ci conviene far da soli? È impossibile. Guai a nutrire tentazioni autarchiche o a gettar via il bambino assieme all’acqua sporca. I mercati non sono in crisi per l’eccesso di trasparenza, ma per l’opacità consentita a periti, analisti, società di rating, banchieri e così via. E l’Italia, da sempre, vive fasi di prosperità quando cresce sui mercati internazionali, langue nei momenti di autarchia. E speriamo che «a da passà la nutatta».