Il petrolio scende, la benzina no. E’ questo il refrain che ha monopolizzato la discussione sui temi energetici negli ultimi giorni, rubando la scena al ritornello precedente – smentito dai fatti e prontamente accantonato – secondo cui i prezzi del greggio sarebbero stati destinati a crescere indefinitamente. Entrambe queste opinioni poggiano su deboli fondamenta.
La relazione tra i prezzi dei carburanti e quelli dell’oro nero non è né semplice né lineare. Si tratta, infatti, di due mercati distinti, per quanto collegati, che seguono logiche diverse.
I prodotti raffinati, tanto per cominciare, contengono un valore aggiunto più alto del petrolio, e incorporano molti costi, da quelli di trasporto a quelli di raffinazione. Inoltre, la percezione della loro variazione è alterata dalla componente fiscale, che pesa per circa la metà del prezzo alla pompa, e smorza quindi i cambiamenti (sia in alto che in basso). Al netto di questo, va osservato che, tipicamente, il settore della distribuzione ha margini ridotti quando il costo della materia prima è alto, e gli operatori tentano quindi di ricuperare un po’ di entrate durante le fasi discendenti del ciclo. Inoltre, c’è un ritardo di circa una settimana tra le variazioni del barile e quelle dei prodotti petroliferi: probabilmente, la settimana prossima vedremo una riduzione dei prezzi della benzina e del diesel anche se il Brent non scenderà ulteriormente. Infine, prima di operare riduzioni sostanziali di prezzo, le compagnie cercano di capire quali saranno le tendenze future: esse sanno che i consumatori sono assai più sensibili ai rincari che ai movimenti in direzione opposta, e si comportano di conseguenza. La vera domanda – ed è una domanda senza risposta – è dunque dove andrà il barile.
La questione è destinata a rimanere irrisolta, perché sono moltissime le variabili – reali e speculative – che entrano in gioco. La brusca contrazione delle quotazioni durante il mese di agosto suggerisce, però, che gli attori finanziari, che avevano sicuramente gonfiato i prezzi durante la prima metà di quest’anno, stanno cominciando a rivedere le loro previsioni, sulla base dei segnali che giungono dai fondamentali, cioè dal rapporto tra domanda e offerta.
Da un lato si è osservata una reazione piuttosto significativa dei consumi, soprattutto negli Stati Uniti (che sono il mercato più “energivoro” al mondo). Dall’altro, si sta diffondendo la sensazione che le compagnie, private o statali, hanno effettivamente investito nell’esplorazione e sviluppo dei giacimenti, e c’è dunque l’aspettativa che, nel medio termine, almeno alcuni di questi investimenti daranno frutto, facendo crescere l’offerta e soprattutto la capacità inutilizzata (un indicatore molto importante della prontezza con cui il sistema può reagire agli shock, e che negli ultimi anni si è assestato su valori molto bassi, pur essendo in ripresa).
Mettendo assieme tutti gli indizi, è probabile che l’attuale fase di alti prezzi abbia raggiunto l’apice e stia iniziando a invertire la tendenza – confermando la natura ciclica del business petrolifero. Questo non significa che non si potrà assistere a nuovi balzi, ma solo che, nel lungo termine, i prezzi torneranno probabilmente a convergere sui livelli storici. Con essi, gradualmente scenderanno anche i prezzi di tutti i prodotti energetici, direttamente o indirettamente dipendenti da quelli del petrolio. La realtà è semplice: sotto la superficie terrestre c’è ancora un sacco di greggio da cavar fuori. La fine del mondo, anche questa volta, è rimandata al prossimo allarme.