I dati sulla produzione industriale e sull’industria dell’auto a novembre hanno in loro qualche cosa di terrificante. Se li si associa, poi, con il dato riguardante la cassa integrazione di dicembre (cresciuta del 525%) e le stime del Centro Studi Confindustria sulla produzione nell’ultimo mese dell’anno (-10,1%) c’è ampia materia per alimentare le previsioni dei catastrofisti.
Chissà che cosa ha detto il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ieri quando ha letto i numeri dell’Istat. È ancora sicuro che l’Italia stia reagendo meglio di altri paesi alla crisi? E chissà che cosa ha esclamato il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. È ancora certo che non sia questo il momento delle grandi riforme? E il sottosegretario Adolfo Urso? Direbbe ancora che l’export italiano cresce ad un ritmo del 4% per cui non c’è nulla di cui preoccuparsi?
Siccome non lo sappiamo, ci limitiamo a sottolineare che se da un lato è vero che l’Italia non ha avuto i crack bancari britannici, tedeschi, americani e francesi (perché i nostri istituti “non parlano inglese” ha giustamente detto Tremonti) dall’altra è innegabile che le misure messe in campo dal governo per reagire alla crisi non sono sufficienti.
Finora la principale preoccupazione è stata quella di evitare il collasso dei consumi e, in qualche modo, ci si è riusciti. Ma, evidentemente non era solo questo il punto. Gli italiani spendono, il problema è che, evidentemente, comprano oggetti non prodotti in Italia. Evidentemente il problema è anche che le imprese nazionali producono oggetti non abbastanza sofisticati e a prezzi non abbastanza bassi da convincere i consumatori a comprarli. Dall’altra parte lo Stato non ha fatto nulla per contribuire all’innovazione dei prodotti (pensiamo al balletto sulla detassazione dei pannelli solari).
I dati di novembre dovrebbero convincere una volta per tutte i policy makers che, in assenza di risorse da destinare brevi manu al sistema industriale (vedi: rottamazioni) l’unica via d’uscita è quella delle riforme strutturali delle quali finora non c’è traccia.
È vero che Germania, Stati Uniti e Francia non hanno nemmeno preso in considerazione questa ipotesi, ma il motivo è semplicemente che loro ne hanno meno bisogno di noi. Il loro mercato del lavoro è assai più libero del nostro. Loro non hanno 600 (600!) contratti collettivi nazionali di lavoro. Loro non hanno una burocrazia creata apposta per frenare l’imprenditorialità di chi vuole investire. Loro sì hanno un problema di consumi, e per questo abbassano le tasse, ma noi abbiamo un problema industriale e di prodotto. Ovvero: non inventiamo nulla che sia degnamente esportabile, tranne i “soliti” vestiti eleganti.
In questa mancanza di innovazione gli industriali hanno una responsabilità gigantesca, da condividere anche con gli altri attori della scena economica ovvero i sindacati e lo Stato. O si decide tutti insieme di varare le riforme indispensabili tese a liberare la capacità di intrapresa delle aziende oppure aspettiamo, comodamente preoccupati, i prossimi dati.