È brutto e soprattutto spaventoso doverlo dire ma la ricostruzione delle discussioni che si tengono ormai normalmente alla Bce sul possibile default di uno Stato dell’eurozona rispetto al proprio debito e l’innescarsi di una “Tequila Crisis” nell’Unione trova sempre più autorevoli conferme.
Domenica Ambrose Evans-Pritchard, uno dei più lucidi analisti finanziari britannici con oltre venticinque anni di carriera alle spalle, ha citato questa ipotesi nel suo “International viewpoint” sull’inserto “Business” del Daily Telegraph e a stretto di giro di posta anche il Financial Times, attraverso Wolfgang Munchau, parla chiaramente di un rischio sempre più incombente: il titolo scelto dal quotidiano della City per l’articolo è decisamente esemplificativo, «“Cosa succederebbe se” è diventata la domanda rispetto al default».
Insomma, ormai non si tratta più di suggestioni o teorie complottistiche, l’ipotesi che uno tra Grecia, Spagna, Irlanda e Portogallo crollino sotto il peso del debito pubblico è realtà. Gli indizi ormai si rincorrono: il downgrading di Standard&Poor’s nei confronti di Grecia, Portogallo e Spagna, le emissioni di titoli di Stato sempre a termine più ravvicinato (sintomo della totale mancanza di fiducia nel futuro immediato), i mancati interventi in difesa dell’economia che parlano la lingua dell’impossibilità di toccare la leva dei conti pubblici e non ultimo le crisi che stanno ormai prefigurando rischi di guerra civile in Bulgaria e Lituania.
Questi Stati, in attesa di entrare nell’eurozona e quindi a essa vincolati, da giorni vedono le piazze piene di manifestanti intenti a scontrarsi con la polizia: la crisi economia morde e la piazza ribolle. Addirittura in Lituania alcuni membri dello stesso governo parlano chiaramente di una situazione di anarchia. Quegli Stati hanno un doppio moltiplicatore di rischio: primo possono contagiare l’intero Est europeo (mercato su cui sono esposte pesantemente molte banche europee, anche italiane), secondo hanno contratto i loro debito in franchi svizzeri. Quindi, se vanno a gambe all’aria loro, va a gambe all’aria anche la Confederazione Elvetica.
Ipotesi impossibile, tanto più che la Bce sta già pompando soldi per scongiurare questa prospettiva: insomma, Francoforte paga con denaro europeo la salvezza di paesi non ancora nell’eurozona e soprattutto di uno che nell’eurozona non entrerà mai. Inoltre il mercato comincia a sospettare che a Francoforte si cominci a intervenire anche sui titoli di debito dei paesi del cosiddetto Club Med e dell’Irlanda: vere e proprie operazioni “repo” o di repossessione di bond che gli investitori stanno scaricando alla velocità della luce.
La situazione è di gravità enorme, tanto che in molti circoli si parla di un’implosione europea dovuta alla non volontà di Germania e Francia, anch’esse pesantemente in crisi, di mettere mano al portafogli per dar vita a un piano di salvataggio degli Stati che eventualmente dovessero andare in default. Di più, se la Bce dovesse generare una massiccia inflazione per porre rimedio alla situazione la Germania chiederebbe l’opt-out, ovvero si sgancerebbe dall’eurozona.
C’è poi un altro moltiplicatore del rischio all’orizzonte: se anche fosse un solo Stato a fallire, mettiamo la piccola e debole Grecia, il mercato dei credit default swaps – una sorta di assicurazioni sul rischio di crollo di un’entità terza, in questo caso uno Stato che crolla per il suo debito – manderebbe in bancarotta le istituzioni finanziarie europee che trattano questi strumenti finanziari di scommesse: se si scommette sul crollo e quello avviene, l’entità erogatrice – cioè banche d’affari e non – devono pagare. E gli hedge funds già sentono l’odore del sangue per rifarsi delle perdite accumulate nell’ultimo trimestre.
L’unica possibile ipotesi sarebbe quella di un prestito ponte di Bce e Fmi allo Stato in default, prestito legato a un programma di austerità economica rigidissima, addirittura la perdita della sovranità fiscale per avere la certezza che il prestito venga ripagato: se questo accadesse a più di uno Stato, si arriverebbe al paradosso orwelliano dell’Unione fiscale europea sotto la guida di Francoforte.
Ieri il commissario europeo per gli Affari economici, Joaquin Almunia, ha detto di non vedere «nessun rischio di default per i Paesi della zona Euro», ma ha sottolineato come «gli spread sono aumentati e questa è una realtà che va affrontata». L’ultima, patetica, disperata bugia. Così come il suo negare un possibile coinvolgimento del Fondo Monetario Internazionale.
I numeri che ha dovuto diffondere, infatti, parlano da soli: secondo le stime, fra i membri dell’euro il deficit più alto rispetto al Pil è quello dell’Irlanda (11%), che già nel 2008 era a 6,3%. Ma le previsioni sul deficit (vale a dire la spesa pubblica non coperta dalle entrate) sono molto oltre la barra del 3% anche per la Spagna (6,2%), la Francia (5,4%) e il Portogallo (4,6%). Sforamento, ma più lieve, anche per l’Italia (3,8%) e la Grecia (3,7%), mentre restano vicini ai limiti di Maastricht la Germania (2,9%) e il Belgio (3%).
Fuori dall’eurozona, la caduta più impressionante è quella del Regno Unito (8,8%) e della Romania (7,5%). Come anticipato, va male anche per la Lituania (6,3%), mentre gli altri due Paesi baltici restano sul 3% (Lettonia) o poco sopra (Estonia, 3,2%).
Insomma, per quanto Giulio Tremonti continui a ignorare i rischi impegnato com’è nella sua personale guerra con Mario Draghi, il peggio deve ancora venire. E nessuno in Europa, nessuno, sarà indenne dal contagio. Qualcuno, più forte, resterà solo ferito, magari gravemente: altri non ce la faranno. E l’Italia, con quel debito e quei conti, è fortemente indiziata di far parte di questo secondo gruppo.