In uno scenario complessivo assai cupo per le economie di tutto il mondo, con la situazione americana già drammatica e quella europea in rapido peggioramento, i nuovi dati Istat pubblicati ieri e relativi all’andamento del settore industriale a novembre rivelano che anche la recessione italiana si è fatta ormai davvero pesante.
Ai dati della scorsa settimana relativi alla riduzione del 12,3% della produzione industriale, si sono aggiunte ieri le cifre sugli indici del fatturato dell’industria e degli ordinativi calati a novembre, rispettivamente, del 13,9% e del 26,2%, sempre rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. In particolare, il fatturato è diminuito del 13,1% sul mercato interno e del 15,7% su quello estero, mentre gli ordinativi hanno avuto una flessione del 26,0% sul mercato interno e del 26,5% sul mercato estero. Si tratta, sia per gli ordinativi che per il fatturato, dei peggiori risultati tendenziali dal 1991.
Numeri così drammatici consentono di meglio comprendere le recenti previsioni fortemente negative sull’andamento dell’economia pubblicate dalla Banca d’Italia prima e dalla Commissione europea poi che, concordemente, prevedono che l’arretramento del Pil italiano sarà intorno al 2% nel 2009.
A fronte di questa successione di dati e previsioni a tinte fosche, la scorsa settimana abbiamo registrato l’approvazione da parte della Camera del decreto legge anticrisi del Governo. Si tratta di un provvedimento che per il 2009 vale circa 5 miliardi euro, comprensivi di 2,4 miliardi per le famiglie e per i pensionati, che costituisce un significativo tassello nella strategia dell’Esecutivo volta a contrastare gli effetti combinati della recessione e della crisi finanziaria globale ma che, proprio alla luce dei dati sopra ricordati, appare oggi largamente insufficiente.
È lo stesso ministro Tremonti, peraltro, a riconoscere l’inadeguatezza delle misure varate prefigurando in una intervista a Il Corriere della Sera di domenica scorsa, lo stanziamento a breve, forse già questa settimana, di 8 miliardi aggiuntivi per gli ammortizzatori sociali. Ci sembra una decisone assai saggia perché la fiducia e la coesione sociale sono elementi essenziali per la competitività italiana.
E infatti, nella già ricordata intervista a Il Corriere della Sera, Tremonti precisa: «L’Italia ha forza nella sua struttura sociale e produttiva, estesa dalle famiglie alla imprese, e debolezza nei conti pubblici, con il terzo debito pubblico del mondo». Si tratta di una descrizione assai ben riuscita del nostro sistema Paese in generale e del nostro sistema produttivo in particolare perché in effetti il modello industriale italiano è costituito da un sistema manifatturiero forte e radicato nel territorio, composto da una fittissima rete di piccole e medie imprese per lo più a carattere familiare, dotate di un ricchissimo capitale umano e tra loro connesse da una elevatissima dose di capitale sociale.
Il punto è che, a nostro avviso, la forza e la vitalità delle nostre imprese risiede in gran parte nella loro capacità di valorizzare e far crescere le persone e far nascere nell’ambiente di lavoro solidi rapporti di fiducia tra i diversi stakeholder. E la fiducia è essenziale per la competitività perché i driver della crescita nell’economia della conoscenza sono sempre più proprio il capitale umano e il capitale sociale, la cui interazione genera a sua volta lo sviluppo attraverso l’innovazione.E non a caso le nostre imprese hanno una capacità di innovazione formidabile
Non ci riferiamo qui alla innovazione tecnologica, perché sappiamo che le imprese italiane, per una pluralità di motivi che fanno riferimento tra l’altro alla dimensione ridotta e alla specializzazione in settori manifatturieri tradizionali, hanno una spesa in ricerca e sviluppo (R&S) piuttosto modesta e comunque sistematicamente inferiore a quelle degli altri Paesi industrializzati nostri competitor. Ci riferiamo qui invece a quella che si suole definire innovazione informale, che è la cifra del nostro modello innovativo.
Di cosa si tratta? Quando si considerano i processi innovativi, non è sufficiente limitarsi a considerare le sole invenzioni derivanti dalle attività di R&S perché esistono in realtà molti modi di innovare. Si pensi a esempio all’introduzione di nuove strategie organizzative o di nuove forme di commercializzazione, ai miglioramenti nelle procedure di produzione o nella logistica, all’utilizzo di nuovi macchinari, allo sfruttamento di nuovi mercati, ecc.
Tutte queste innovazioni non sempre richiedono grandi investimenti perché spesso derivano semplicemente da forme di apprendimento informale che si realizzano attraverso lo scambio di informazioni e conoscenze che avvengono in ambito lavorativo.
Si tratta dunque di innovazione che nasce e si sviluppa dal capitale sociale perché si può conseguire solo se, a partire da un elevato capitale umano con forti dosi di imprenditorialità a tutti i livelli, sussistono rapporti di fiducia e abitudini alla cooperazione che si sono sedimentate nel corso del tempo. In tal modo dunque la cooperazione promuove la capacità di competere: nei nostri distretti, ad esempio, le imprese cooperano nella fase pre-competitiva ma questo non impedisce loro di competere poi anche aggressivamente.
Ma perché questa interazione virtuosa tra capitale umano e capitale sociale possa efficacemente realizzarsi occorre che si sia costruita una rete all’interno della quale e attraverso la quale il capitale sociale possa dispiegare la sua forza costruttiva. È questo il motivo per cui le reti sono da noi, più che altrove, elemento indispensabile per competere efficacemente.
Se vogliamo dunque superare la fase più acuta della crisi e farci trovare pronti alla ripresa del ciclo, il che avverrà con ogni probabilità nella seconda metà del 2010, dobbiamo salvaguardare il nostro capitale sociale proteggendo i lavoratori più deboli, i precari, le piccole e piccolissime imprese, e allo stesso tempo investire nella formazione ad ogni livello.
In termini concreti, pur non perdendo di vista il nostro micidiale debito pubblico, che purtroppo non concede molti gradi di libertà alle manovre di politica economica, e pur continuando a vigilare sul sistema bancario affinché si riducano le forme di restringimento del credito ancora presenti, è necessario destinare risorse agli ammortizzatori sociali potenziando la cassa integrazione e aumentando i fondi per i precari, non dimenticando anche che le spese in istruzione e formazione sono investimenti essenziali per il futuro.
I 61 miliardi di surplus commerciale registrati a ottobre 2008 dimostrano come le nostre imprese, almeno finché la domanda estera ha tenuto, siano state capaci di reggere la competizione globale nonostante i tanti deficit strutturali che affliggono il nostro Paese (debito pubblico, divario Nord-Sud, deficit energetico). E sarà proprio questa imprenditorialità diffusa, capace di generare continua innovazione di prodotto e di processo, a consentire al Paese di ricominciare a crescere.