Secondo le ultime previsioni di Eurostat l’Italia si prepara nel 2009 a perdere due punti di Pil. E vedrebbe aumentare il proprio deficit al 3,8% del Pil. Il governo ha varato un pacchetto da 5 miliardi di euro, nettamente inferiore rispetto a quello degli altri paesi europei. Basterà? Gli esperti si dividono. Interviene Mario Sarcinelli, economista, già vicedirettore generale di Bankitalia, presidente di Dexia-Crediop. «L’economia reale ce la farà. Ma occorre ripulire il mercato del credito. Tre le alternative: le bad banks, l’acquisto degli asset da parte delle Tesorerie e una nazionalizzazione temporanea. È la soluzione più radicale, ma anche quella che permette di operare con la maggiore libertà»
Professor Sarcinelli, come giudica la manovra varata dal governo?
È evidente che ogni manovra espansiva provoca, presto o tardi, un aumento del debito. Che si è sempre rivelato, e continua ad essere, il nostro tallone d’Achille, sia in termini assoluti sia di Pil. D’altro lato in queste situazioni di crisi che si teme profonda e lunga, con un forte aumento della disoccupazione, non c’è medicina diversa da quella di un incremento della domanda pubblica, sostitutiva di una domanda privata che, per varie ragioni, non si materializza. Siamo comunque in una situazione che non si può risolvere facendo appello a esortazioni o a modelli teorici. Soltanto la politica deve e può assumersi la responsabilità di scelte forti.
La recessione che finora ha investito maggiormente altre economie investirà anche l’Italia?
Quello che possono fare gli economisti è dire: se non si fa nulla la situazione rischia di essere, nella distanza, peggiore di quella di altri paesi europei. Non critico il governo per il fatto che non abbia varato un programma più ardimentoso. Ma difficilmente quelle dell’Ue si possono definire mere ipotesi. Mi sembrano piuttosto previsioni ragionate dotate di fondamento.
Le nostre imprese, fattore trainante della nostra economia, soffrono una stretta creditizia. Come si può reimmettere fiducia nel sistema e favorire una maggiore equità orizzontale, per sostenere la domanda privata?
In questa fase le imprese non chiedono credito per espandere la produzione ma semplicemente per rifinanziare l’indebitamento dovuto al fatto che lo Stato o i clienti non pagano. E questo crea, nelle imprese, una situazione di tensione. Dal canto loro le banche si trovano ad aver a che fare con un mercato della liquidità, prima completamente congelato, che ha ripreso a dare qualche debole segno di vitalità. Le banche centrali hanno dovuto fare sforzi enormi per mobilizzare – assumendosi naturalmente dei rischi – gli asset ceduti dalle banche sotto forma di Pct o di altri strumenti di rifinanziamento.
Una situazione, dunque, lontana dall’essere normalizzata.
Sì. Le banche si trovano in difficoltà nell’ottenere liquidità, tanto che la Banca d’Italia sta lanciando in questo periodo un mercato per fondi liquidi collateralizzato (cioè con garanzie reali della puntuale esecuzione dei contratti, ndr.) con depositi presso la stessa Banca centrale. Questo naturalmente porta gli istituti di credito a formulare giudizi più severi di prima sull’affidabilità del cliente, e a restringere le facilitazioni.
Qual è la sua valutazione dell’operato delle banche centrali? Le sono parse in grado di trovare e coordinare una politica monetaria conveniente nella congiuntura? C’è chi afferma che anche determinare una politica del credito a costi inferiori finirebbe per dilazionare il problema nel tempo anziché risolverlo…
Le banche centrali hanno fatto l’unica cosa che potevano fare: ampliare le proprie facilitazioni di rifinanziamento nei confronti del sistema. Quando il mercato monetario non è più stato in grado di far fronte al suo compito, le banche centrali si sono sostituite ad esso e hanno fatto operazioni dirette di rifinanziamento verso ciascuna azienda. E a condizioni di tasso inferiori. Da questo punto di vista la politica monetaria è stata fortemente propensa a facilitare il compito delle banche e, attraverso di esse, a favorire le imprese: negli Usa la Fed è intervenuta direttamente sul mercato del commercial paper. Il “soccorso” non è mancato. Ma quando, soprattutto all’estero, i bilanci delle banche hanno denunciato, per la presenza di attività “tossiche”, perdite molto forti, queste hanno determinato cadute di borsa. Il sistema ha avuto tendenza ad “avvitarsi” e da qui la necessità per gli Stati di intervenire.
Quali sono le possibili vie di uscita?
Un’alternativa sarebbe quella di liberare le banche facendo confluire i prodotti tossici all’interno di bad banks; l’altra, ipotizzata a suo tempo anche da Paulson, di farli comprare alle Tesorerie degli Stati o da loro agenzie. Sarebbe un’ottima misura se fosse realizzabile; ma il problema è che nessuno sa qual è il prezzo degli asset tossici. Comprarli ad un prezzo elevato vorrebbe dire fare un regalo agli azionisti. Farlo ad un prezzo meramente nominale, defraudarli. E infatti, nel momento in cui il mercato non funziona, vengono meno i parametri di riferimento, cioè i prezzi. La terza e ultima strada è quella della nazionalizzazione temporanea, in vista di una ripulitura per una successiva cessione ai privati.
Lei quale ipotesi auspica?
La terza soluzione, la nazionalizzazione, è la più radicale, ma anche quella che permette di operare con la maggiore libertà. Il rischio è che la politica si “affezioni” alle banche e non le riprivatizzi il più presto possibile… Spesso è inevitabile assumerlo, nonostante l’intento governativo di mantenere la banca soccorsa nell’ambito privato, vedi caso Northern Rock. Comunque, la decisione spetta in ogni ordinamento al governo.
L’espansione artificiale del credito che ha dato luogo alla crisi poteva avere esiti diversi da quelli che si sono verificati?
La storia ci insegna semplicemente che il capitalismo va incontro a periodi di crisi. Abbiamo avuto negli Usa lunghissimi periodi di espansione che hanno fatto da motore ad una crescita generalizzata, con battute d’arresto come quelle che si sono verificate in concomitanza del dot-com bubble o dopo la prima guerra del Golfo. Tutto questo è stato ottenuto attraverso una forsennata attività finanziaria che ha spinto al forte indebitamento di famiglie e operatori e ha permesso alle banche di sviluppare una filosofia operativa basata sul rapporto diretto tra complicazione degli strumenti finanziari e guadagno. Questo ha fatto sì che in assenza di inflazione relativa ai beni e ai servizi ci fosse una politica monetaria accomodante, pronta, quando scoppiavano le bolle, ad inondare il mercato di liquidità. Si è creata l’illusione che si fosse trovata la ricetta per evitare ogni recessione. Ma un organismo non può essere sottoposto indefinitamente a sforzi e tensioni senza, infine, crollare.
Qual è l’errore da non ripetere?
Oggi paghiamo gli eccessi del settore finanziario, ma anche una certa acritica fiducia che si è venuta consolidando nella nostra capacità di dominare le forze dell’economia. Non siamo demiurghi, ma solo uomini che tentano di capire, al meglio delle loro conoscenze, come evitare gli errori. Dobbiamo fare tutti un atto di umiltà, perché l’epicentro sono stati gli Usa ma non è che l’Europa sia stata da meno. La storia si ripete, sia pure in forma diversa, perché non mutano le condizioni che le permettono di ripetersi, tra cui l’umana presunzione di saper gestire o dominare tutto.
L’Italia attraversa una crisi nella crisi. Il bipolarismo tra crisi finanziaria ed economia reale come potrà risolversi? La seconda dovrà farci ripensare i termini della prima?
Si dovrà intervenire sulla finanza, in linea con quanto potrà essere deciso a livello europeo. Non si può dire che l’economa reale, fino a questo momento, non abbia ricevuto credito, e nemmeno che il modello finanziario non sia stato in grado di servire l’economia reale. Il vero problema è che la finanza ha finito, in qualche misura, per servire se stessa. L’Italia è una terra di piccole e medie imprese, ma anche di piccole banche in cui la finanza ha un ruolo marginale. Fortunatamente il nostro paese non ha visto i fenomeni che si sono verificati all’estero, Europa compresa, e il nostro coinvolgimento nel settore finanziario, anche a livello dei grandi gruppi, è stato minore.
Cosa ci aspetta nell’immediato futuro?
Non penso che lo scenario reale possa scostarsi di molto rispetto a quello che la Banca d’Italia e la Bce, indipendentemente l’una dall’altra, penso, hanno prospettato. Dal punto di vista finanziario mi pare che le nostre banche stiano reagendo bene. Se si delineasse una situazione in cui le imprese divengono sempre più illiquide e con difficoltà a ripagare i debiti, questo potrebbe esporre la stabilità delle banche a qualche maggiore tensione. Essendo in genere gli italiani meno indebitati, a parità di ogni altra condizione, essi saranno meglio in grado di far fronte ai propri obblighi verso le banche. Le imprese forse potranno soffrire anche se non si riuscirà a trovare una soluzione per i ritardi dello Stato e degli Enti pubblici nei pagamenti. Rimangono le incognite occupazionali generate dalla crisi…
Uno dei punti forti della nostra economia sono le esportazioni. Le nostre imprese soffriranno la crisi della domanda mondiale?
Anche i paesi emergenti avranno le loro difficoltà, però continueranno a crescere ad un ritmo abbastanza elevato se quei mercati si manterranno aperti. Difficile pensare, per esempio, che la Cina possa scendere al di sotto del 5-6% l’anno. Sono ragionevolmente fiducioso che i nostri esportatori riusciranno a mantenere quote significative di mercato in quei paesi.