Il Financial Times è un giornale da tutti ritenuto autorevole, forse il più autorevole per quanto riguarda il mondo dell’economia e della finanza. Non a caso viene citato a piene mani da tutti i concorrenti, italiani compresi.
Peccato che altrettanta attenzione non venga riservata al sito Internet del quotidiano della City, per esattezza al suo aggiornatissimo blog AlphavilleFT: facendolo, infatti, il 19 gennaio scorso si sarebbe scoperto un articolo dal titolo molto interessante: «L’esposizione di Unicredit nell’Est».
Nulla di totalmente inedito, visto che i guai dell’istituto di Alessandro Profumo sono noti così come la sua mission di banca internazionale più che banca classica. Leggendo quell’articolo, però si scopre che il Market Implied Rating (MIR) group di Moody’s, l’agenzia di rating, lancia un grido d’allarme e anche un’accusa non troppo velata alla casamadre: l’attuale rating dei credit default swaps – sorta di assicurazione sul rischio del crollo di un’entità terza, in questo caso Unicredit – dell’istituto bancario sarebbe «esageratamente ottimistico sul livello di rischio del credito della banca».
Insomma, quell’A1 – abbassato di poco dal recente Aa1 – non rispecchia il reale valore a cui vengono trattati i cds di Unicredit e quindi non rispecchia il reale rischio di crollo rispetto all’esposizione dell’istituto verso i paesi dell’Est europei, travolti dalla crisi e percorsi in alcuni casi da pesanti manifestazioni di dissenso con cortei di massa e scontri nelle piazze.
Nonostante Moody’s si sia affrettata a dire che il giudizio di MIR non rispecchia il proprio, a nessuno sfugge l’adagio che proprio per MIR inventò David Munves lo scorso anno: «Quell’unità serve a pubblicizzare i punti sui quali il mercato non è d’accordo con Moody’s».
E in questo caso si tratta del grado di esposizione creditoria di Unicredit verso i Paesi dell’Est a creare il vulnus: quelle nazioni, prima dell’esplodere della crisi, viaggiavano con tassi di crescita cinesi basati sia sui prestiti stranieri sia sull’export. Ora però la capacità di ripagare quei debiti sta diventando molto più a rischio, visto che ad esempio un paese come la Polonia – dove UniCredit ha la maggiore esposizione – vede il proprio sistema bancario sotto accusa e soprattutto i propri cds sul debito schizzati a 243 punti base venerdì scorso: insomma, il rischio paese è enorme.
Anche perché la Polonia ha basato molto il suo sviluppo-record sulle rimesse dei suoi moltissimi cittadini andati a lavorare all’estero: ora, con i tassi di disoccupazione alle stelle, quei soldi vengono meno quasi di colpo. Per MIR l’indicatore dei cds polacchi si trasforma in un rating-implied di Baa1 mentre Moody’s gli ha affibbiato un A2: totalmente discrepante. Inoltre, i prestiti di Unicredit verso Paesi del centro ed Est Europa rappresentavano il 13 per cento degli assets di Unicredit nel 2007, i quali a loro volta rappresentano il 21 per cento delle entrate dell’istituto stando ai dati del terzo trimestre.
A questo poi va aggiunto il fatto che le monete di quei paesi sono crollate di valore con la crisi e quindi i costi per assicurare queste esposizione sale: quel costo va sostenuto dalla banca o dal recettore del prestito, comunque a un prezzo molto più alto di quello previsto all’atto della sottoscrizione. Insomma, i rischi crescono anche se un default contemporaneo di Polonia e Turchia, i principali paesi esposti verso Unicredit, è quantomeno improbabile, se non tecnicamente impossibile.
Resta comunque il silenzio tombale sui timori dei mercati rispetto allo stato di salute di una delle due principali banche italiane, il tutto mentre tra Bankitalia e il ministero dell’Economia sta andando in scena un balletto poco edificante rispetto ai timori degli istituti bancari per i prospettati bond di Tremonti, al cui costo per le banche vanno poi sommate le condizioni accessorie e soprattutto l’adozione del codice etico, anticamera di dimissioni forzatamente richieste dalla politica se non dal mercato.