Comunque vada a finire, anche con la riconferma dell’attuale board, è una triste parabola quella di Unicredit, epicentro italiano del terremoto finanziario mondiale. In un solo anno, il titolo della grande banca ha perso il 75% del suo valore, secondo solo nella classifica nera del listino di piazza Affari al titolo Seat.



Dopo la terribile ondata ribassista di autunno, quando l’amministratore delegato si sentì quasi obbligato di rassicurare clienti e risparmiatori, con una dichiarazione in televisione e poi con la convocazione di un consiglio di amministrazione straordinario per un aumento di capitale, il valore dell’azione di Unicredit si aggrappava a una soglia più vicina all’euro e cinquanta, piuttosto che a quella di un euro e quaranta.



La decisione dell’aumento di capitale per tre miliardi di euro, ancorata a un valore azionario intorno ai tre euro, pareva una risposta di orgoglio e anche di fiducia. I primi giorni del 2009 sembravano carichi di speranza, come se il ciclone si stesse stemperando, abbassando così la sua forza dirompente. Non è stato così.

Alla fine delle prime tre settimane di gennaio 2009, Unicredit ha lasciato sul terreno un altro 22% del suo nuovo e già ridotto valore. Mercoledì 21, dopo una sessione di Borsa altalenante, Unicredit ha chiuso a 1 euro e 34 centesimi, dopo aver toccato il minimo di un euro e 31 centesimi a mezz’ora dalla fine delle contrattazioni. Ieri è andata ancora peggio, con un’altra scivolata del 5% e il titolo che ora vale 1 euro e 25 centesimi.



Impressionante e impietoso il confronto con la quota raggiunta appena dopo la fusione con Capitalia, quando si veleggiava intorno ai sette euro e mezzo. Non è passato molto tempo da quella stagione dove si sperava che il sistema bancario italiano, completamente ammodernato, potesse diventare attraverso alcuni istituti un grande player internazionale.

Certo, l’ondata di vendite e la crisi finanziaria proiettano grafici di spaventosa vertigine in picchiata per quasi tutte le imprese del mondo. C’è in giro anche di peggio. Ma per l’Italia, Unicredit è oggi

Un “campione a rovescio”, così come per tanti anni è stato un modello e un campione reale, applaudito, premiato dal mercato, dagli analisti di tutto il mondo e dalla stessa opinione pubblica.

Adesso è in atto un’operazione non del tutto condivisibile. Quella di trovare il “capro espiatorio” , l’alfiere di un modello di fare banca in Italia che sta finendo in bancarotta in tutto il mondo, mentre solo qualche tempo fa, nella maggioranza dei casi, si stava ad applaudire il periodo delle “vacche grasse”.

C’è ancora chi si ricorda l’autunno del 2002, quando sembrava un fatto dovuto liquidare la vecchia Mediobanca, ancorata alla stabilità e ai piani industriali di medio e lungo periodo, in nome della “banca come impresa che deve massimizzare i profitti”. La deduzione, in base a quel modello, che vedeva sulla stessa linea Unicredit e molti altri protagonisti della nostra finanza, era: perché mantenere al comando di piazzetta Cuccia il “delfino” del fondatore, Vincenzo Maranghi, che, con la sua vecchia scuola, non riesce a fare valore?

In effetti Maranghi non voleva neppur sentire parlare di derivati. Dovette accettare il meccanismo delle stock option, specificando almeno che quelle previste per lui non le avrebbe neppure sfiorate. Infine la sua ossessione non era il “roe”, bensì la stabilità e la discrezione, e confidava: «Anche se me ne vado, Mediobanca per dieci anni è a posto». C’è da sperarlo, perché l’attuale capitalizzazione

Di Mediobanca è ancora quasi uguale a quella che ha lasciato al momento delle dimissioni.

Dice un grande banchiere che ricorda quello scontro: «Non c’era certo solo Profumo su quella linea. C’erano una folla di nuovisti e sedicenti tali. Profumo ci ha messo la sua faccia pulita e credibile. Oggi, paradossalmente, è il più attaccato di tutti. Ma non è giusto addebitare solamente a lui quello scontro che potrebbe diventare emblematico dell’ultimo sussulto, quello prima del tonfo, della tecnofinanza in salsa italiana».

Un altro banchiere, legato alla scuola della vecchia Mediobanca, dice: «I servizi bancari non producono un grande valore aggiunto. Per realizzarlo bisogna mettersi a vendere altro ai clienti…». E in quest’ultima dichiarazione c’è un’eco di quanto ha dichiarato Paul Volcker qualche giorno fa: «Adesso basta con il supermercato della finanza». Volcker è stato capo della Fed americana prima di Alan Greenspan e uno dei principali consiglieri del nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama.

Che cosa rivela tutta questa convergenza di dichiarazioni e di prese di posizioni? Che alla fine, dietro alla “ideologia mercatista”, dietro a una nuova filosofia di fare banca, c’era tutto il mondo, la stragrande maggioranza dei grandi banchieri dell’Occidente sulle due rive dell’Atlantico, non solo l’amministratore delegato di Unicredit. Quindi, non c’è da cambiare un uomo o un board, ma una teoria se non una vera e propria ideologia bancaria che ha avuto un ruolo importante nella crisi finanziaria mondiale.

Quindi ritorniamo alla situazione di Unicredit. La banca sta scontando tutti peccati del mondo: il gigantismo attraverso le aggregazioni anche all’estero e quindi il maggior coinvolgimento nella crisi internazionale; la ricerca esasperata di un efficientismo teso a massimizzare i profitti che ha pure insistito sui prodotti derivati. Mancava, in queste ultime settimane, il coinvolgimento nel crack Madoff della partecipata (al 25%) austriaca Bank Medici e della controllata irlandese Pioneer.

È probabile che proprio questi ultimi fatti, uniti alla seconda ondata ribassista, hanno provocato il grande nervosismo del board di Unicredit, con voci di ogni tipo, pressing delle Fondazioni e un’accelerazione sulla nomina della governance che dovrebbe uscire dall’assemblea di fine aprile.

In sostanza, dopo i due ribassi di lunedì 19 e martedì 20, si è riunito un comitato governance che ha fissato, per il consiglio di amministrazione del 12 febbraio, l’anticipo degli equilibri tra i soci (tedeschi, libici, Fondazioni) e probabilmente l’indicazione di una lista per la governance nuova che sarà poi nominata nell’assemblea di primavera.

Accelerare i tempi per dare garanzie al mercato è un fatto certamente positivo. Accelerare i tempi per un “regolamento di conti”, non sarebbe una buona soluzione. È interessante vedere quello che dice Moody’s : «Il ricambio al vertice di Profumo sarebbe accettato dal mercato in modo neutro. Non avrebbe alcuno effetto favorevole o sfavorevole».

La miglior soluzione sarebbe allora quella di una presa di coscienza collettiva dell’ubriacatura finanziaria sofferta in questi anni. Unicredit resta una grande realtà italiana, che con più compattezza (magari un esecutivo, nominato per una governance più collegiale) può uscire dalla crisi attuale, senza indicare “capri espiatori”, ma riscoprendo la passione di fare banca al servizio delle imprese italiane.