Partiamo da due considerazioni all’apparenza antitetiche. Nel 2008 la produzione di automobili è scivolata ai minimi dagli anni Sessanta. Il settore auto, però, resta il traino della meccanica: per ogni addetto all’auto ce ne sono sette impiegati nella componentistica piuttosto che nel marketing o nella distribuzione.
In sostanza, a guardare il primo dato sembra che la produzione diretta sia ormai in procinto di “emigrare”. Basti dire che i due principali stabilimenti di Fiat si trovano a migliaia di chilometri da Torino. A Tichy, in Polonia, vengono sfornati ogni anno 400 mila modelli contro le 600 mila macchine in tutto di cinque impianti italiani. Ma la fabbrica più importante, con una produzione superiore al mezzo milione di modelli, si trova in Brasile.
Vista così, sembra che la partita dell’auto ci riguardi sempre meno. Grosso errore. La filiera delle quattro ruote resta uno dei settori tecnologicamente più avanzati del Made in Italy. Una filiera fortemente integrata nel tessuto dell’auto europea. Pochi lo sanno, ma l’80% di un’Audi è fatto di componenti fabbricate e progettate in Italia. Nel Nord Est ma non solo. Merito della genialità italiana. Basti pensare agli antifurti satellitari di Cobra che accompagnano, ad esempio, le Volkswagen in Brasile piuttosto che la leadership di Brembo negli impianti frenanti dei marchi più apprezzati delle due e delle quattro ruote. Ma un piccolo miracolo che non può prescindere da una “testa”, la multinazionale Fiat.
Bastano queste considerazioni spicciole, speriamo, a smontare uno dei presupposti sbagliati del dibattito sugli aiuti all’auto. Primo, non si tratta e non si deve “aiutare” la Fiat, proseguendo nella logica dello scambio (più aiuti in cambio di più occupazione al Sud). Ma, al contrario, è vitale per la nostra industria aiutare la filiera nel suo complesso attraverso incentivi mirati all’innovazione. Più ancora, attraverso un forte investimento pubblico nelle strategie di miglioramento della qualità della vita.
A lungo andare la stessa logica della “rottamazione” è concettualmente sbagliata: occorre spingere per costruire macchine migliori, non per saturare gli impianti a ogni costo, con il risultato di saturare le città. E nella stessa direzione deve andare la logica degli incentivi. Valga il precedente francese: una politica fiscale mirata a favorire le auto meno inquinanti, scelta che, tra l’altro, ha consentito alla Fiat una notevole crescita delle quote di mercato. O una politica delle scelte che farà di Parigi, nelle intenzioni di Nicolas Sarkozy (e di Vincent Bolloré, per questo interessato alla Pininfarina) la prima metropoli attrezzata per l’auto elettrica, comprese le stazioni per ricaricare batterie. O garages per favorire l’affitto di quattro ruote per piccoli tragitti.
Seconda considerazione. Si fa un gran parlare nel mondo delle quattro ruote di integrazioni “in testa”, cioè tra aziende. Per ora, in realtà, gli esempi sono pochi. E spesso di sicuro insuccesso. In realtà, almeno per ora, hanno funzionato alcune acquisizioni che hanno segnato la colonizzazione del più piccolo (vedi Bmw-Rover), ma sono falliti gli esperimenti di veri e propri merger (basti pensare a Daimler-Chrysler piuttosto che a Fiat-Gm).
In realtà, il panorama industriale è ormai attraversato da una miriade di accordi. Per restare in casa Fiat, ormai il gruppo condivide la piattaforma della 500 con Ford Ka, fornisce piattaforme alla Gm tramite Powertrain Technologies, ha una lunga storia di collaborazione con Peugeot nei camion leggerei (vedi Ducato). Continua la trattativa, infine, con Bmw per una piattaforma in comune tra Alfa e “piccola” bavarese. Presto, secondo la visione di Marchionne, l’auto dovrà assomigliare al ciclo produttivo dei pc. In quasi ogni personal computer figura la scritta “Intel inside”, ovvero componenti comuni. Ma la concorrenza resta viva sul design, il prezzo, le caratteristiche per distinguerei modelli. Le reti di distribuzione.
È facile prevedere che questo trend sia destinato a continuare perché lo impone sia la congiuntura negativa (che spinge ad accelerare il taglio dei costi) che la tecnologia. Lo sviluppo di soluzioni “verdi”, infatti, da un lato presuppone investimenti ingenti che ha senso condividere. Dall’altro obbliga a scelte strategiche che impongono l’adesione di più produttori e di più Stati (basti pensare ai costi di una rete di distributori).
È una sfida globale che rendere necessaria almeno una cornice europea. Non ha alcun senso una comunità che pretende di imporre una politica monetaria e di bilancio, ma svanisce come neve al sole quando si tratta di condividere scelte di sviluppo che richiedono standard e indirizzi tecnologici comuni. Saprà l’Italia far fronte a questa sfida senza limitarsi ad “aiutare” la Fiat?
In realtà, le questioni tecnologiche, finanziarie ed economiche devono fare i conti con l’emergenza politica. Non è pensabile che lo Stato venga incontro a una sola delle richieste della parte industriale se pende la spada di Damocle della chiusura di Termini Imerese o di Pomigliano d’Arco. Ma non è nemmeno pensabile di contrapporre, in maniera demagogica, “Il Nord Est da cui partirà l’uscita dalla crisi” al modello della multinazionale che succhia i contributi di Stato a beneficio di pochi rentiers. Gli uni e gli altri sono decisivi per conquistare una posizione dignitosa nel mondo al Made in Italy che in termini numerici non è solo moda, cibo od occhiali.
Non è possibile dimenticare che la Fiat si presenta al negoziato dopo aver tirato fuori un jolly inatteso, Chrysler, pagato solo, per ora, con tecnologie e soluzioni del Made in Italy. Certo, è una mossa a sorpresa che dovrà essere valutata nei prossimi mesi. Per ora possiamo giudicarla alla stregua di una “genialata” all’italiana. Nessuno si aspettava quella telefonata, di Sergio Marchionne, agli uffici di Cerberus, il private equity che possiede il controllo di Chrysler, l’azienda più disperata della disperatissima Corporate America.
Per avere un’idea del degrado di quella che fu la terza grande dell’auto, basti dire che solo i 4 miliardi versati dal governo Usa hanno evitato la bancarotta di Chrysler (e di Cerberus). Ma 3 di quei 4 miliardi vanno restituiti a fine marzo se, entro il 17 febbraio, l’azienda guidata da Robert Nardelli (sì, proprio quel ceo di Home Depot, già pupillo di Jack Welch, che staccò due anni fa una liquidazione da 210 milioni di dollari) non presenterà un decente piano industriale. Cosa che Nardelli, senza un progetto, un prodotto o una tecnologia non riusciva nemmeno a immaginare. Prima che quel “matto” di italiano gli offrisse, chiavi in mano, tecnologie e progetti per superare l’esame di Washington.
Un bel regalo di Natale, si sa, a costo zero. Non a caso gli apporti di Fiat sono stati valutati 3 miliardi, la stessa cifra che, in caso di bocciatura, Chrysler dovrà restituire al governo. Se l’operazione avrà successo, il Ceo in maglione avrà proiettato la Fiat tra i cinque-sei grandi che domineranno il mondo dell’auto, a capo di un gruppo da 4 milioni di vetture. Altrimenti sarà dura. Perché, come dimostra la risposta della Borsa ai conti del 2008, la Fiat come entità d’impresa autonoma e indipendente, è a un passaggio cruciale: o si fa il salto di qualità, oppure la maledizione del gruppo (il circolante negativo, inevitabile quando il ciclo delle vendite rallenta più di quello delle forniture) tornerà ad abbattersi sulle casse del Lingotto che non può contare sull’appoggio dello Stato azionista (come Renault) o sulla formidabile macchina dell’economia tedesca, che sul primato dell’auto fonda la sua leadership di n.1 tra gli esportatori del pianeta.
Ce la farà la Fiat? Speriamo. Sotto i cieli della crisi anche le imprese più solide, con i margini e i bilanci meglio attrezzati, rischiano. Figuriamoci un’azienda a livello di “junk” con un bond prezzato due volti gli utili (a conferma che il mercato non si fida), con un Cds, cioè la polizza contro il rischio default, superiore a quello di Italease.
Ma, intuizione di Giulio Tremonti, la scommessa Fiat è una grande storia italiana: chi, se non noi, può immaginare di acquisire il 35% di un’azienda come Chrysler in cambio di piattaforme, cioè le basi per produrre i veicoli, e non di quattrini? Chi, se non un’azienda italiana, poteva pensare di dare sbocco alle sue consociate senza lavoro (vedi Comau, Magneti Marelli, Powertrain) oltreoceano, facendosi pagare le commesse dai contributi di Washington e, per giunta, rilevando gratis il controllo del committente?
Solo chi, potremmo rispondere, riuscì a farsi versare 2 miliardi di dollari per non vendere l’auto a General Motors.