Se ci mettessimo per strada con un microfono ad intervistare i passanti rivolgendo loro la domanda “a che cosa serve un sindacato?”, la grande maggioranza ci risponderebbe così: “a negoziare i contratti di lavoro”. Per la Cgil, invece, la firma degli accordi è diventata un’eccezione. Osserviamo con rammarico – perché in un momento come l’attuale ci sarebbe bisogno di unità – quanto è avvenuto negli ultimi mesi. La Cgil non ha sottoscritto l’accordo di rinnovo del settore del commercio nè i contratti del pubblico impiego. L’unico caso di un certo rilievo, in cui la confederazione diretta da Epifani ha ritenuto di partecipare, dopo molti mal di pancia, alla conclusione positiva del negoziato, è stata la vertenza Alitalia. Poi, di nuovo la levata di scudi contro le “Linee guida sulla contrattazione”.



Eppure il testo dell’accordo quadro è assai migliore di quello presentato dalla Confindustria nell’autunno scorso. Molto più essenziale e liberato da quegli aspetti (le sanzioni per le inadempienze contrattuali) che avrebbero potuto infastidire la Cgil e mettere in crisi i suoi rapporti con la Fiom. Una buona intesa dunque. Tanto da consentire ad Enrico Letta, ministro del welfare del Governo-ombra, dichiarazioni nella sostanza molto severe (e simili a quelle del ministro Sacconi) nei confronti della Cgil. In pratica, le posizioni conservatrici della Confederazione rossa sono ormai un problema anche per il Pd o almeno per la parte riformista di quel partito.



Guglielmo Epifani – ormai prigioniero dell’alleanza tra Fiom e Funzione pubblica – ha giustificato la renitenza alla firma facendo riferimento a due problemi: il primo relativo a quale saggio d’inflazione fare riferimento nella contrattazione nazionale e nella definizione dei minimi retributivi; il secondo riguardante la possibilità di negoziare deroghe in ragione di particolari situazioni settoriali e territoriali. Nel primo caso l’accordo stabilisce che per la dinamica degli effetti economici si individui un indicatore della crescita dei prezzi al consumo assumendo per il triennio – in sostituzione del tasso di inflazione programmata – un nuovo indice previsionale costruito sulla base dell’IPCA (l’indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. L’elaborazione della previsione sarà affidata ad un soggetto terzo. Si tratta di un marchingegno un po’ singolare (del resto, la piattaforma sindacale rivendicava il criterio della “inflazione realisticamente prevedibile”), ma chi ha voluto la bicicletta (ovvero l’abbandono del criterio dell’inflazione programmata) ora dovrebbe pedalare in silenzio.



Secondo la Cgil, questo meccanismo non consentirà mai di salvaguardare nella contrattazione nazionale il potere d’acquisto dei lavoratori rispetto all’inflazione reale. Un ragionamento siffatto ha di mira la questione della cosiddetta inflazione importata (attraverso i prodotti energetici) che, secondo la Cgil, dovrebbe concorrere a determinare le percentuali di incremento retributivo. Il fatto è che – dovrebbe riflettere l’ex presidente Ciampi prima di avere comprensione per la Cgil – l’adesione alle richieste dell’organizzazione di Epifani avrebbe significato il ripristino, attraverso il contratto nazionale, di una nuova scala mobile.

E’ veramente pretestuoso voler agganciare la dinamica salariale all’inflazione reale, compresa quella importata, l’esclusione della quale era un caposaldo del protocollo del 1993, dal momento che un costo che grava su tutta la comunità deve essere ridistribuito su tutte le sue componenti. Il secondo motivo di dissenso riguarda la questione delle cosiddette deroghe (punto 16 dell’accordo). In verità questo è uno degli aspetti più innovativi. La contrattazione nazionale, nel Paese dei tanti divari, esiste solo sulla carta e genera soltanto lavoro sommerso. Occorre mettere in discussione (come sta avvenendo in altri Paesi dell’Europa) il principio dell’inderogabilità delle norme contrattuali, in forza del quale due livelli di negoziazione continuano ad essere contemplati, da noi, in una prospettiva “accrescitiva” e di progressivo miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro. In Germania, ad esempio, questa ricerca si è concretizzata nella introduzione delle “clausole di apertura” (applicate senza fare troppe storie nel 35 per cento delle aziende e nel 22 per cento degli uffici) che consentono di scendere al di sotto degli standard previsti dai contratti collettivi (è frequente la prassi delle retribuzioni agganciate agli utili).

Anche in Italia, nel 1997, la Commissione presieduta da Gino Giugni studiò – per incarico del primo Governo Prodi – il problema della riforma della contrattazione (ne facevano parte sia Massimo D’Antona che Marco Biagi) e arrivò a prefigurare un’ipotesi derogatoria incentrata sulle “clausole d’uscita” rispetto a quanto definito dalla contrattazione nazionale. Si tratta di un’esigenza tuttora valida (già recepita nella contrattazione del settore chimico) e divenuta più pressante in un ordinamento federalista e a fronte dei problemi di sviluppo del Mezzogiorno, le cui realtà produttive non sono in grado di “sostenere” una regolazione del lavoro forzatamente uniforme. Naturalmente, il punto 16 dell’accordo, nel prevedere la possibilità di deroga, la subordina a precise intese tra le parti sociali e a criteri di periodicità e di sperimentazione.