Non è certo un caso che le slides di presentazione degli obiettivi per l’anno alla comunità finanziaria, da parte di Sergio Marchionne, lo scorso 17 gennaio si intitolassero “The name of the game is survival!”. È in gioco la sopravvivenza, inutile illudersi. Per l’auto, un paio di trimestri a cadute del mercato nell’ordine del 40-60% sono in grado di mettere alle corde chiunque. E non è un caso che i governi di Francia, Spagna, Svezia, Germania e Regno Unito abbiano annunciato piani straordinari di sostegno per miliardi di euro. Oltre, naturalmente, a Stati Uniti e Giappone. Per miliardi non solo complessivamente, ma mettendo in gioco miliardi per ciascun Paese. Nei Paesi anglosassoni, giganti delle macchine movimento terra come Caterpillar possono annunciare il licenziamento di 20 mila dipendenti da un giorno all’altro, uno su cinque sul totale della propria forza lavoro: e questo dà l’idea della pressione che il rallentamento soprattutto dei Paesi emergenti è in grado di determinare anche su CNH del gruppo Fiat, costringendo la holding a sostenere un doppio circolante negativo, non solo dell’auto ma anche degli autoveicoli da lavoro.
Se questa è la realtà dell’automotive, cerchiamo di capire come vanno le cose nell’intero settore manifatturiero. A gennaio il calo della produzione industriale è stato più contenuto che a dicembre, ma su base annua siamo ormai a quasi un 12% secco in meno. A dicembre l’export italiano ha realizzato risultati migliori di quelli della Francia, e grazie alla discesa dei prezzi petroliferi la sola componente dell’export manifatturiero è superiore all’import energetico. Martedì alcuni giornali italiani hanno visibilmente sbandato, pubblicando risultati tratti da uno studio realizzato da Banca Intesa sugli avanzamenti dei 103 distretti produttivi italiani. Risultati straordinari. Peccato che si riferiscano però al triennio 2005-2007, dunque ben prima che la crisi dell’economia reale da settembre 2008 iniziasse a mietere vittime.
È molto difficile, insomma, avere e dare una dimensione concreta all’ondata che colpisce le aziende italiane. Il rischio è di lasciarsi andare a pessimismi cosmici, o a ottimismi di maniera. Sono sbagliati entrambi, a mio modesto parere. Ma una cosa mi sembra sempre più sicura. Per la stragrande maggioranza delle aziende che lavorano nella fornitura, subfornitura e componentistica a non elevato valore aggiunto per filiere e distretti le cui capofila sono – per fortuna , fino a ieri – fortemente proiettate sulla domanda estera, il calo del commercio internazionale a doppia cifra ogni mese provoca in due o tre trimestri al massimo – a seconda della diversa rispettiva consistenza e solidità del conto economico e patrimoniale – un problema di vera e propria sopravvivenza. Problemi analoghi si pongono per le aziende che lavorano sull’intera filiera dei beni di consumo durevoli, sui quali gli italiani tendono in questa fase a rinviare per timore e sfiducia le decisioni di spesa, visto che senza un frigorifero, lavatrice, lavastoviglie nuova, a meno dell’esalazione dell’ultimo respiro da parte del modello in funzione, si può benissimo per qualche tempo fare a meno.
Apparentemente, sono problemi di ordine diverso dagli aiuti all’auto. Solo apparentemente, temo. È il ministro Claudio Scajola, il regista tecnico degli strumenti da mettere in campo. A cominciare dall’auto. Si tratta di seguire il più possibile il canovaccio europeo – in realtà diverso da Paese a Paese, ma con caratteristiche almeno genericamente analoghe. C’è chi con più decisione ha imboccato la via del sostegno al consumo di veicoli a tecnologia più ecocompatibile, c’è chi vi ha aggiunto sostegni al patrimonio delle aziende. C’è chi, come la Merkel, con il “Fondo Germania” annunciato e di ben 100 miliardi di euro – di cui non si conoscono ancora nel dettaglio i meccanismi di attuazione – ha dichiarato di aprirsi al sostegno patrimoniale e del conto economico – cioè dei crediti, innanzitutto – dell’intero Mittelstand tedesco.
Questa è l’atmosfera in cui avviene la maratona dedicata ai problemi dell’auto. Una maratona cominciata ieri sera con l’esposizione da parte di Sergio Marchionne ai vertici del governo dei problemi dell’azienda torinese e del suo indotto, e che continua oggi con incontri collegiali. Ed è per questo che la maratona dell’auto è pressoché obbligata a segnare molte discontinuità rispetto al passato. La discontinuità non deve essere solo nel fatto che gli aiuti non devono essere intesi solo alla Fiat, bensì all’intero comparto, come primari componenti del governo hanno già annunciato. Su questo, raccomando a tutti la lettura di un volume denso di dati che uscirà per il Mulino domani, intitolato “Governo e grandi imprese – La Fiat da azienda protetta a global player”. È una ricerca molto seria che si ferma naturalmente a considerare gli effetti benefici, anteriori alla crisi attuale, della sferzata di efficienza impressa da Sergio Marchionne nei suoi primi quattro anni alla guida dell’azienda torinese. Luca Germano, l’autore, documenta come i decenni precedenti, quelli che hanno visto Fiat totalizzare aiuti di Stato superiori a quelli di tutte le concorrenti europee (e mondiali), non avessero affatto evitato lo stato di decozione in cui Marchionne si trovò a rianimarla. Anzi, avevano decisamente contribuito a rimandarne razionalizzazioni e rifocalizzazioni.
È la dimensione stessa degli aiuti europei alle concorrenti in difficoltà, oggi, a rendere per definizione impossibile che la Fiat torni a essere la “sola privilegiata”. Dunque vedremo quali saranno le misure per l’intero settore auto e componenti, che Scajola proporrà (con Tremonti che si riserva l’ultima parola, dal punto di vista delle compatibilità di bilancio).
Ma c’è una discontinuità ancora maggiore da prendere in considerazione, ed è quella che a quanto mi risulta Emma Marcegaglia ha personalmente esposto al presidente del Consiglio. Se la crisi continua – come io purtroppo credo – finché non avverrà una riregulation finanziaria e una credibile pulizia degli asset detenuti dagli intermediari finanziari, a cominciare dagli Stati Uniti – cosa per la quale ci vorranno nel migliore dei casi due trimestri pieni, nel peggiore fino a tutto il 2010 – gli aiuti all’auto non rappresentano affatto la vera sfida da raccogliere. I sessantamila lavoratori a casa di cui ha parlato Marchionne potrebbero divenire fino a un milione e oltre, se non si inizia a pensare non solo – come si è già fatto – a garantire in maniera crescente il sostegno ai redditi ai cassintegrati aggiuntivi; ma anche a come sostenere le aziende nel loro conto economico e patrimoniale.
È un compito che rischia di essere spaventevole, ma è insieme affascinante. Non credo affatto che si tratti di pensare a nuove IRI, la storia non si ripete mai eguale. Ma attenzione: l’esperienza del consorzio sovvenzione valori industriali, che in Italia nacque nel 1912 sotto Giolitti e Nitti ben prima della crisi, qualcosa da insegnare ce l’ha ancora. Il mio modestissimo suggerimento è di rendere operativa al più presto una terza gestione della Cassa depositi e prestiti, che si affianchi a quella ordinaria e a quella speciale. Le modifiche statutarie che ne sono premessa sono già state adottate dal governo. Si tratta ora di immaginare come, alla Cassa che è esterna al recinto del bilancio e del debito pubblico (sempre grazie a Tremonti, non dimentichiamolo per favore), si possa procedere a garanzie per trasformare crediti a breve e medio in lungo termine. Ma anche a interventi straordinari e temporanei nel capitale, per sostenere i circolanti negativi ed evitare fallimenti a catena. Se poi non serviranno, meglio per tutti. Ma l’essenziale è che, se la crisi continua, non ci colga impreparati e con una macchina pubblica incapace di esperire istruttorie anche a centinaia, per valutare caso per caso il da farsi.
Servirebbe un rapporto diverso col sistema bancario. Ma questo è tema per un altro intervento. Intanto, vediamo quale consapevolezza emergerà dal tavolo dell’auto.