Nel 2009, la crisi del gas di Capodanno – che come in passato vede Russia e Ucraina scontrarsi sui prezzi di vendita del metano – avrà pochi effetti per i consumatori europei. A causa della recessione, i consumi sono crollati ovunque e gli stoccaggi sono pieni. Non c’è, a differenza che negli anni scorsi, un rischio che il possibile temporaneo venir meno delle forniture lasci alcuno al freddo o al buio. Ciò nonostante, non bisogna sottovalutare quanto sta accadendo. Mosca vuole allineare il prezzo del gas per l’Ucraina ai livelli internazionali; Kiev è disposta ad accettare solo dopo aver rivisto al rialzo le tariffe di transito per il gas russo sui suoi metanodotti (da cui passano l’80 per cento delle esportazioni verso l’Unione europea). Sotto lo scontro economico e negoziale, c’è una chiara questione politica: il primo ministro russo, Vladimir Putin, non ha mai accettato la manovra di sganciamento praticata dall’Ucraina con la rivoluzione arancione.



I mercati del gas naturale sono, per loro natura, estesi su una dimensione solo regionale, e caratterizzati da evidenti rigidità strutturali, a causa del fatto che la larga maggioranza del metano è trasportata via tubo. Inoltre, nonostante lo sforzo (forse non del tutto convinto) della Commissione europea di perseguire una effettiva integrazione dei mercati europei, il panorama comunitario resta suddiviso, di fatto, in vari mercati nazionali dominati da monopolisti pubblici (con la significativa eccezione britannica). Ne segue che non solo l’Europa non può ancora essere definita un mercato unico – e dunque non ha la possibilità di esprimersi con quella “single voice” che tutti, a parole, sembrano invocare – ma che essa manca pure di quelle caratteristiche di efficienza e flessibilità che pure sarebbero necessarie, soprattutto riguarda a una commodity così centrale rispetto al sistema energetico continentale.



Quest’anno, dunque, la crisi russo-ucraina non produrrà grandi conseguenze nel breve termine. Tuttavia, essa fornisce una duplice lezione: in primo luogo, si è verificata nel passato, accade nel presente, e potrà ripresentarsi nel futuro. Nel 2009, poi, si è arrivati a un livello di conflittualità elevatissimo, col taglio dei rifornimenti russi a Kiev. Secondariamente, l’Europa non è in grado di rispondere a crisi del genere, a meno di non trovarsi in condizioni ambientali favorevoli (nel senso che la crisi, riducendo i consumi, rende l’economia europea meno esposta alle bizze dei signori del gas). Il fatto di averla, fortunosamente, scampata, dovrebbe essere per Bruxelles di stimolo a intraprendere e attuare quelle riforme che finora sono state evitate, come la separazione proprietaria delle reti e degli stoccaggi dai soggetti dominanti sui rispettivi mercati.



Infatti, è chiaro che non ci si può costantemente affidare alla buona sorte. In passato, essa è anzi venuta meno, determinando un momento di iper attenzione alla questione gas, che ha condotto a grandi proclami e, purtroppo, poche contromisure. Al contrario, la consapevolezza di un rischio gas ha spinto i decisori politici europei e degli Stati membri a inseguire improbabili chimere, come le fonti rinnovabili e il “green deal”. Anche se si ritiene che essi possano giocare un ruolo importante, è chiaro che non si può pensare di chiudere, semplicemente e velocemente, problemi di lunga durata; tanto più che l’energia verde non sarà comunque in grado di coprire una quota maggioritaria del fabbisogno. L’ambizioso e irrealistico piano dell’Ue parla del 20 per cento dei consumi: il restante 80 per cento viene dato quasi per scontato, quando così, evidentemente, non è.

Le liberalizzazioni non sono oggi meno urgenti di ieri, e il fatto che tutta l’attenzione politica sia rivolta altrove rappresenta quasi l’opposto di una garanzia. Quante crisi del gas ci vorranno, per prendere la questione energetica davvero sul serio?