L’impresa sociale non profit è un ammortizzatore sociale utile a contrastare la crisi incombente. Infatti lo sviluppo di questo tipo di impresa, sancita giuridicamente da una filigrana normativa che è incominciata con la L.118/05, si è sviluppata con il D.Lgs. 155/06 e conclusa con i decreti attuativi della G.U.86 dell’11/04/08, può ammortizzare la crescita della disoccupazione e il ristagno dei consumi.
In una logica di solidarietà, che deve uscire dalla sfera dell’esortazione di rito e spesso assunta solo come un “mantra”, per concretizzarsi prevalentemente, e specificatamente, è come una formula imprenditoriale sociale attiva nel contesto socio economico. È un modo nuovo di concepire il sociale connesso con l’imprenditorialità. Peraltro già oggi le imprese e aziende non profit sono un asset imprescindibile per il sistema Paese.
Dalla crisi dovrà uscire un’Italia più competitiva, ma anche più giusta ed equilibrata. È necessario fare innovazione e attivare un cambiamento imprenditoriale rispetto al passato, lavorando sia sull’architettura del sistema socio economico, ma sviluppando capitale umano e sociale disponibile a cogliere le opportunità senza cadere nell’opportunismo speculativo e senza freni di cui stiamo pagando oggi le conseguenze. Non solo nuovi stili di consumo,ma anche nuovi stili di imprenditorialità e di management.
Questa crisi farà cambiare anche alcuni fondamentali dell’impresa tradizionale e quindi si dovranno cercare nuove forme di impresa che integrino il valore aziendale strumentale con la valorialità del finalismo imprenditoriale.
Per rispondere alla crisi, oltre agli ammortizzatori sociali tradizionali, è necessario promuovere e sviluppare l’impresa sociale intesa anch’essa come ammortizzatore sociale. Questa affermazione si basa su alcuni concetti aziendali dell’impresa sociale che si traducono in caratteristiche funzionali, operative e di gestione:
1- La nostra impresa ha costi inferiori a quelli delle imprese for profit e quindi può produrre e vendere beni e servizi a prezzi più bassi. Questo avviene perché la motivazione a una maggiore produttività e a un’efficacia operativa più gestibile è una costante dei dipendenti di queste imprese. Ovviamente bisogna evitare l’insorgere di burn out funzionale.
Anche i costi generali e fissi sono contenuti e il break even si realizza con quantità di produzione inferiore rispetto all’impresa for profit. Ciò che bisogna evitare è la tentazione di sviluppare competitività scaricando su basse retribuzioni il fattore critico di successo dell’impresa sociale.
Come conseguenza di questa formula imprenditoriale i prezzi più bassi aiuterebbero a mantenere i consumi a livelli equilibrati per il sistema socio economico perché offrirebbero più potere d’acquisto alle famiglie e ai cittadini il cui reddito sarà ridimensionato dalla crisi generale.
2- L’impresa sociale è un’azienda che non ha scopo di lucro e non deve, da subito, distribuire utili. Questo avviene anche quando assume la veste giuridica di spa, srl senza scopo di lucro anche se, a fronte dell’opportunità di fruire delle operazioni straordinarie (vedi G.U.86 dell’11/04/08), dopo un lock up di alcuni anni esse possono diventare contendibili e quindi essere vendute.
Si potrebbe ipotizzare la creazione di imprese sociali spa, srl che non danno dividendi per alcuni anni, ma che in seguito, se ben gestite, possono, dopo aver incrementato il patrimonio tramite il reinvestimento degli utili, trovare sbocchi di vendita per gli asset azionari.
In questa situazione di crisi questo permetterebbe di sviluppare imprenditorialità con la formula di spa, srl senza distribuzione di utili nei vari settori tipici dell’impresa sociale (vedi art 2 del D.Lgs 155/06) nella prospettiva di realizzare la contendibilità una volta superata la crisi.
Questa impresa sociale amplia il suo stare sul “mercato” e sul “quasi mercato” acquisendo un ruolo pervasivo nel sistema socio economico. Infatti oltre al già riconosciuto e stabilizzato protagonismo operativo nei servizi socio assistenziali, socio sanitari, educativi si aggiungono settori quali la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, la valorizzazione del patrimonio culturale, il turismo sociale, la formazione universitaria e post-universitaria, la ricerca ed erogazione di servizi culturali, la formazione extra-scolastica finalizzata alla prevenzione della dispersione scolastica e al successo scolastico e formativo, i servizi strumentali alle imprese sociali e così via.
3- L’impresa sociale contempla la specificità d’azione per promuovere l’occupazione delle fasce deboli fra le quali vi sono i disoccupati. In questa situazione essa può svolgere la sua attività in qualsiasi settore economico e sociale superando anche l’elenco dei settori visto nel punto precedente.
Tutto ciò avviene a patto che si inseriscano fasce di lavoratori svantaggiati (si veda il D.Lgs 155/06 all’art 2 che recita: «Possono acquisire la qualifica di impresa sociale le organizzazioni che esercitano attività di impresa al fine dell’inserimento lavorativo di soggetti che siano: a) lavoratori svantaggiati ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera f), punti iix e x, del regolamento – CE – n.2204/2002 del 12 dicembre 2002 della Commissione relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE agli aiuti di stato a favore dell’occupazione»).
Per «lavoratore svantaggiato», così recita il regolamento comunitario, si intende qualsiasi persona appartenente a una categoria che abbia difficoltà ad entrare, senza assistenza, nel mercato del lavoro, vale a dire qualsiasi persona che soddisfi, ex multis, uno dei criteri seguenti: i) qualsiasi giovane che abbia meno di 25 anni o che abbia completato la formazione a tempo pieno da non più di due anni e che non abbia ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente; […] iv) qualsiasi persona che desideri intraprendere o riprendere un’attività lavorativa e che non abbia lavorato, né seguito corsi di formazione, per almeno due anni, in particolare qualsiasi persona che abbia lasciato il lavoro per la difficoltà di conciliare vita lavorativa e vita familiare; […] vii) qualsiasi persona di più di 50 anni priva di un posto di lavoro o in procinto di perderlo; viii) qualsiasi disoccupato di lungo periodo, ossia una persona senza lavoro per 12 dei 16 mesi precedenti, o per 6 degli 8 mesi precedenti nel caso di persone di meno di 25 anni; xi) qualsiasi donna di un’area geografica al livello NUTS II nella quale il tasso medio di disoccupazione superi il 100% della media comunitaria da almeno due anni civili e nella quale la disoccupazione femminile abbia superato il 150% del tasso di disoccupazione maschile dell’area considerata per almeno due dei tre anni civili.
Come si può notare l’impresa sociale attaglia la sua funzione di ammortizzatore sociale proprio giocando un ruolo specifico nell’ambito dell’area critica della disoccupazione.
Questo approccio di sussidiarietà orizzontale appare evidente e ha una caratterizzazione innovativa perché la filiera sussidiaria è composta da “privato for profit” e “privato non profit”. Quindi si creerebbe un effetto di sviluppo per il sistema che avrebbe non solo vantaggi contingenti e di interventismo riparativo, ma anche vantaggi duraturi, continuativi e strategici con un orizzonte che va oltre la crisi.
Sarebbe un’opzione strutturale che innescherebbe la funzione di moltiplicatore di ricchezza per i territori che assumono e sviluppano competitività se incrementano capitale sociale, capitale umano e capitale di imprenditorialità sociale. In quest’ottica e con l’obiettivo di conseguire un risultato di sistema a somma maggiore di zero, lo Stato dovrebbe valutare la creazione di un fondo per l’imprenditorialità sociale promuovendo, in modo diffuso, partnership fra “privato non profit” e “privato for profit” da integrare in spa o srl come impresa sociale.