Fare cassa. La priorità, per il governo britannico, da qui a fine anno in attesa che inizi il conto alla rovescia per le elezioni generali, è una sola: rientrare per quanto possibile dal terribile passivo accumulato con le operazioni di salvataggio prima e stimolo dopo ed evitare la spirale del debito pubblico selvaggio.



Detto fatto, il premier britannico, Gordon Brown, si appresta ora ad annunciare un piano di cessioni di beni pubblici per 16 miliardi di sterline nei prossimi due anni, di cui 3 miliardi (4,8 miliardi di dollari) nelle prossime due settimane. Quest’ultima tranche di privatizzazioni includerà la vendita della società di scommesse Tote, la partecipazione del governo nel tunnel ferroviario sulla Manica e sul Tamigi, un portafoglio di prestiti agli studenti e la quota statale del 33% nell’Urenco, la società pubblica per l’arricchimento dell’uranio. Le cessioni serviranno a diminuire l’indebitamento pubblico e prevedono altri 13 miliardi di sterline di vendite di beni pubblici, già indicate in un rapporto del 2007.



Ma per capire come Oltremanica stiano prendendo molto seriamente la gravità di questa fase, un misto tra speranze di ripresa e potenziali ricaschi di una crisi a “w”, lo si deduce dalle altre dichiarazioni di politica economica fatte dal primo ministro, secondo il quale fermare la politica di quantitative easing metterebbe in pericolo la ripresa economica. Cosa sia il quantitative easing è noto ma ripeterlo giova: si tratta di una politica per creare moneta da parte delle banche centrali attraverso l’acquisto di titoli finanziari in mano a privati e include anche la possibilità di acquistare nuovi titoli del debito pubblico da parte delle autorità monetarie.



La Gran Bretagna ha avviato un vasto programma di quantitative easing in parallelo all’allentamento dei tassi, per contrastare la crisi economica e finanziaria: «Vi è uno spartiacque fondamentale – dice Brown – nella politica britannica. C’è gente che vorrebbe che gli stimoli economici fossero ritirati subito, mentre l’economia è ancora in difficoltà e c’è gente che vorrebbe arrestare da oggi il quantitative easing, mettendo in pericolo la ripresa».

L’allarme di Brown sul ritiro degli stimoli all’economia e delle politiche di quantitative easing altro non è che una risposta alle proposte dei conservatori e in particolare a quelle del loro leader David Cameron, il quale ha detto che gli aiuti pubblici e monetari vanno rivisti «in fretta». Il leader dei Tories ha più volte detto, ultima la scorsa settimana al congresso del partito a Manchester, che la minaccia più grande per l’economia viene dal deficit pubblico, mentre Brown insiste nel mantenere gli stimoli finché l’economia non avrà mostrato chiari segni di ripresa.

Chi abbia ragione dei due, in un momento simile è difficile dirlo. Certamente le politiche di quantitative easing, a lungo andare fanno più danno che utile e la scelta di dismettere tutte le partecipazioni governative per fare cassa parla questa lingua. Dall’altra, però, resta il fatto che scommettere un po’ sulla leva del debito può rivelarsi una scelta vincente se consente un consolidamento della ripresa e mette al riparo il sistema da possibili – e probabili – nuovi terremoti. Una cosa sola è certa: avere la sterlina e la Bank of England permette grande libertà e velocità di manovra, opzioni che la Bce non pare avere nel suo dna.

 

Detto questo, non solo da questa parte dell’oceano si comincia a pensare in maniera difensiva, ovvero di dar vita a una sorta di hedging politico della crisi. Il governo statunitense ha infatti deciso di liberarsi al più presto della sua quota in Citigroup, qualcosa di più di un terzo delle azioni del colosso creditizio statunitense e lo ha fatto cercando di sfruttare al massimo le potenzialità dell’istituto prima di lasciarlo al proprio destino. È infatti di tre giorni fa l’annuncio della vendita di Phibro, la divisione di Citigroup specializzata nel trading sul mercato del petrolio e di altre materie prime, punta di diamante del gruppo e una delle vere e proprie macchine fabbrica soldi durante il rally che portò le quotazioni del petrolio a toccare i 147 dollari nel luglio del 2008, in piena crisi e poi a disfarsi con altrettanta bravura delle posizioni quando la brusca virata dettata dal crollo della produzioni li portò a 34 dollari pochi mesi dopo.

 

Parlavamo di hedging politico e ora spieghiamo il perché. Phibro è stata acquistata dalla compagnia petrolifera Occidental Petroleum Corporation per soli 250 milioni di dollari, cifra che non rappresenta nemmeno gli utili di un anno di Phibro, che infatti negli ultimi cinque anni ha presentato conti in attivo mediamente di 371 milioni di dollari.

 

Il problema era tutto politico: primo, uno dei suoi trader riceve 100 milioni di dollari l’anno e questo in clima di caccia a speculatori e streghe finanziarie può apparire sgradevole per un governo democratico che si ritrova ad essere anche azionista. Secondo, appariva decisamente sgradevole per il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, spiegare a mercato e cittadini che il governo che rappresenta era primo azionista di uno dei protagonisti principi del mercato dei futures petroliferi e delle commodities, mercato che proprio Geithner insieme alla Sec sta cercando – almeno a parole – di regolamentare evitando la giungla delle dark pools.

 

Insomma, squeezes e corners poco si abbinano con il profilo da Nobel per la pace del governo democratico. Il momento è questo e quando due governi come quello Usa e quello britannico si lanciano in operazioni di svendita del genere significa che i rischi sono seri: questa settimana, poi, verranno rese note le trimestrali di molte banche, con Goldman Sachs che già annuncia utili stellari. La Borsa è pronta a un altro rally, il mondo si prepari a un’altra bolla.