Nuovi incentivi per il settore auto, ma con la garanzia che Fiat continui a produrre in Italia. Questo il senso dell’auspicio del ministro dello Sviluppo Economico espresso in alcune dichiarazioni alla stampa nella scorsa settimana; una di queste rilasciate a Detroit, dove il ministro ha incontrato Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat.
L’obiettivo è chiaro. Il settore delle auto è importante per il Pil e l’occupazione del nostro Paese, soprattutto in un quadro di aspettative ancora grigie per il 2010, e gli incentivi sono uno strumento che ha mostrato una certa efficacia fino a oggi.
Nel primo semestre del 2009, gli incentivi alla rottamazione disposti da diversi governi europei hanno permesso di aumentare le vendite di auto rispetto al 2008, per esempio, del 12% in Italia, del 18% in Spagna e del 26% in Germania. Negli Stati Uniti, dove sono stati sperimentati per la prima volta, gli incentivi hanno permesso la vendita di 700 mila auto in più tra luglio e agosto. Non appena gli incentivi americani sono però terminati, le vendite sono crollate ai livelli dell’anno precedente (allo scoppio della crisi funesta), con un -46% per General Motors.
Nel nostro paese in particolare, la spesa pubblica per incentivi ha permesso di avere quasi 190 mila nuove auto immatricolate a settembre. Ma gli incentivi costano: quasi 300 milioni di euro per il piano italiano del 2007 (al netto di extra gettito IVA e di tasse di circolazione). A fronte di un parco auto un po’ più ecosostenibile, i benefici per l’industria italiana sono stati filtrati da una quota di mercato del 31,53% per il gruppo Fiat la quale, inoltre, non produce soltanto in stabilimenti in suolo italiano.
È quindi debole il legame tra incentivi (lato della domanda) e sostegno alla produzione nazionale (lato dell’offerta) se si considerano la libertà di scelta dei consumatori e il grado di apertura del mercato considerato. L’auspicio del ministro dovrebbe prevedere quindi qualcosa di più che ulteriori incentivi per la rottamazione di auto inquinanti.
Si tratta di una strategia, quella italiana, che potrebbe inserirsi perfettamente nel quadro già dipinto dai governi di Francia e Germania. Questi hanno infatti concesso aiuti pubblici rispettivamente a Renault e Peugeot e a Opel chiedendo di non chiudere gli stabilimenti e/o tagliare posti di lavoro nei propri Paesi, danneggiando indirettamente soprattutto le produzioni, e quindi l’economia complessiva, di Slovenia, Belgio, Gran Bretagna e Spagna.
Condizionamenti di politica nazionale che si scontrano con i principi del mercato unico incessantemente invocati dalla Commissione europea: le scelte di produzione in un mercato concorrenziale quale quello europeo dovrebbero essere ispirate da criteri puramente economici.
Ma la crisi economica imperversa, gli appuntamenti elettorali sono sempre dietro l’angolo e la Commissione europea è sempre sorvegliata speciale dei governi dell’UE. Per questo motivo il ministro dell’Economia Tremonti ha espresso il desiderio che un’eventuale proroga degli incentivi alla rottamazione sia una scelta europea, ovvero una scelta esplicita e condivisa dei governi, con l’accordo con la Commissione, senza scontri istituzionali.
Rimane una questione aperta. Come per gli onerosi aiuti di Stato che Fiat ha ricevuto, ci si chiede se dietro questo sostegno al settore auto vi sia una chiara politica industriale (che privilegia il settore in questione rispetto ad altri tanto importanti per l’economia italiana quanto minacciati da fattori esogeni), una scelta obbligata (dal “o tutti o nessuno” di Marchionne a fine 2008, siamo finiti agli aiuti per “tutti”) oppure altro non meglio identificato che può includere questioni sociali come l’occupazione in aree delicate (vedi stabilimento di Termini Imerese) probabilmente gestibile con altri strumenti, tuttavia non afferenti a quelli propri della politica industriale necessaria per la competitività di un Paese.
Infine, ancora secondo Marchionne, un’azienda dovrebbe vendere almeno 5,5 milioni di auto per stare efficientemente su un mercato che nel medio termine vedrà soltanto sei grandi gruppi di livello mondiale. Ad oggi, alcuni marchi sono passati di mano (Chrysler, Hummer, Saturn e Saab) ma nessuna azienda ha chiuso veramente i battenti. Il processo di ristrutturazione non ha preso quindi nessun avvio e rimane un eccesso di capacità, in Europa pari a circa 7 milioni di veicoli, che i governi si troveranno prima o poi ad affrontare nuovamente, guarda caso, ancora con i soldi dei contribuenti.