Nella prima risposta data ai telegiornali televisivi, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha cercato di essere flemmatico, mettendo a freno quel suo carattere che talvolta lo ha portato a fare delle dichiarazioni un po’ brusche, fuori tono. «Il fatto che le banche abbiano deciso di non utilizzare i bonds non deve essere considerato uno sgarbo al governo. Certo che quei fondi, se li avessero presi, avrebbero potuto essere utilizzati per dare più credito alle imprese, soprattutto quelle medie e piccole che sentono più delle altre la crisi». Quindi una reazione tranquilla, misurata di fronte alla scelta delle due principali banche italiane, Unicredit e Intesa, di andare sul mercato, autonomamente, a cercare le risorse necessarie ad aumentare la propria capitalizzazione. Ma la notte, evidentemente, non ha portato consiglio (almeno non senso della prudenza) al ministro, perché la mattina dopo ha rincarato la dose: «Se le banche pensano di ritornare a fare soldi con la finanza – ha dichiarato – allora vuol dire che si preparano alla prossima crisi».



Il che è un po’ come dire: è probabile che in un futuro non molto lontano avrete di nuovo bisogno di me, del governo, della politica. E allora faremo i conti. Questi conti in realtà il ministro avrebbe voluto farli un anno fa quando, con l’esplosione della grande crisi che ha travolto prima i mercati e poi l’economia di tutto il mondo, le banche sono state sull’orlo del crollo e hanno chiesto aiuto ai governi. Quello italiano, come gli altri in Europa e in America, non è stato insensibile al grido di dolore e ha escogitato i Tremonti bonds. Un meccanismo certo non gratuito, che però ha esercitato un effetto psicologico molto positivo sui mercati e sui risparmiatori, perché conteneva un segnale implicito assai rassicurante: il governo, lo Stato, non lasceranno fallire il sistema bancario, sono pronti a fare la loro parte per sostenerli.



È stata un’operazione politica corretta, indispensabile. Ma sotto sotto conteneva anche un po’ di veleno. In quella fase, mentre lanciava il salvagente agli istituti di credito in difficoltà, Tremonti si è lasciato scappare qualche battuta sulla validità del management che aveva portato le banche in quella situazione di crisi; alcuni personaggi a lui vicini sono arrivati a sostenere, senza molti giri di parole, che il governo avrebbe in futuro dovuto dire la sua sulle nomine dei vertici bancari visto che, di fatto, stava per diventarne azionista. Queste esternazione, è ovvio, hanno spaventato i diretti interessati (i manager), ma anche i loro azionisti, a partire dalle fondazioni che sono i soci principali delle grandi banche e che sono sì sottoposti a vincoli politici, ma di tipo diverso.



Così da quel giorno, da quando sono stati varati i Tremonti bonds i due – governo elargitore e candidati utilizzatori di quello strumento – si sono studiati con reciproco sospetto. Da allora a oggi solo due banche, Popolare di Milano e Banco Popolare, vi hanno fatto ricorso. Tutte le altre hanno aspettato le mosse dei leader, cioè proprio Intesa e Unicredit. Intanto le condizioni sul mercato nazionale e internazionale sono cambiate. Il collasso della finanza non c’è stato, le banche hanno ripreso a fare business come facevano prima del crack con le stesse regole (poche), le stesse astuzie, le stesse operazioni di ingegneria finanziaria che sono state causa non secondaria della crisi. E hanno visto che per risolvere i loro problemi di scarsità di capitale potevano fare da sole, senza rivolgersi al governo, potevano evitare quell’atto di vassallaggio che la sottoscrizione dei Tremonti bonds avrebbe comportato. Intesa di Corrado Passera ha deciso di emettere obbligazioni cosiddette ibride per 1,5 miliardi e di vendere degli asset (come per esempio Fideuram cui è interessata la finanziaria Exor della famiglia Agnelli);  Unicredit di Alessandro Profumo varerà invece un aumento di capitale per 4 miliardi di euro sicuro che il mercato lo accoglierà con favore.

Questa scelta netta, questa volontà di fare da sole è dovuta certo a motivazioni personali, o se si vuole di potere. Ma c’è anche un’altra considerazione da non sottovalutare. Il governo dovrà sistemare molte partite complesse nelle grandi industrie nei prossimi mesi. E la tentazione di ricorrere al sistema bancario per creare cordate di salvataggio, o simili, sarà forte. Se le banche avessero utilizzato in massa i bonds governativi, sarebbe stato molto difficile sottrarsi agli appelli provenienti dal potere politico. E questo avrebbe creato problemi ai bilanci delle banche e, anche, sottratto risorse per finanziarie le imprese più sane. Con il loro no ai Tremonti bonds le banche hanno lanciato un messaggio: l’attività creditizia, in Italia, rimane nel campo privato. In futuro si vedrà.