Lamentandosi ad alta voce che UniCredit e Intesa Sanpaolo hanno rifiutato l’emissione di bond pubblici a favore del Tesoro, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti ha dato l’impressione – ad alcuni osservatori più o meno obiettivi – di registrare lui stesso una propria “sconfitta”. È fuori di dubbio che all’inquilino di Via XX Settembre non sarebbe affatto spiaciuto “entrare” nella governance delle grandi banche (è già avvenuto, del resto, nel Banco Popolare e avverrà con molta probabilità nel Montepaschi e nella Popolare di Milano). Avrebbe alzato il suo rating di “heavyweight” nell’establishment italiano, nonché il suo profilo di politico impegnato – anche sul fronte internazionale – in una crociata antimercatista contro i banchieri arricchiti dai bonus e a favore delle piccole e medie (“vere”) imprese penalizzate nell’accesso al credito.
Ma sarebbe ingenuo attribuire al Tremonti l’impoliticità di dichiarare un fallimento, personale e politico. Così come pecca come minimo di strumentalità chi ha subito proclamato una “grande vittoria” per una categoria inventata lì per lì nella tarda estate dall’intellettualità più salottiera: le cosiddette (meglio sedicenti) “élites”, le autonominatesi “classi dirigenti” del Paese, ultimo (presunto) denominatore comune per tutti coloro che considerano il centrodestra al Governo una scandalosa e inaccettabile parentesi nella storia nazionale.
Tremonti ha invece certificato uno “0-0”, sicuramente deludente anche per lui, ma non solo per lui, anzi. L’enfasi ha ripreso anzitutto il duro ultimatum di Cernobbio a inizio settembre («chi rifiuta i Tremonti-bond va contro gli interessi del paese»). Già allora, la preoccupazione del ministro non era quella di premere sulle banche perché accettassero la pur transitoria presenza statale via bond speciali. Era invece rendere – per l’ennesima volta – «tutti avvertiti» che di fronte al possibile ritorno – in qualsiasi momento – di una crisi finanziaria, il Governo italiano è pronto intervenire per evitare i collassi bancari e i guai a catena su risparmiatori, imprese e ciclo economico che hanno invece colpito fior di economie avanzate: Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Belgio, Olanda.
Secondo: Tremonti ha voluto ricordare l’efficacia della “garanzia di firma” prestata dal Tesoro italiano al sistema bancario nazionale nel drammatico autunno 2008. Una garanzia tuttora valida, di cui hanno certamente beneficiato tutti gli azionisti delle grandi banche, prima ancora che i depositanti.
Terzo e non ultimo: ha rammentato che, politicamente, i Tremonti bond non sono mai stati “salva-banche”, ma “salva-risparmio” e “salva-credito”. E che, quindi, le banche hanno ribadito una resistenza (principalmente dei top manager e degli azionisti di controllo) a operare “in squadra” per rilanciare l’economia con una più alta offerta di credito alle imprese.
In questo il ministro ha marcato la sua radicale differenza di approccio rispetto al Govenatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, per il quale invece dei “sani” intermediari finanziari privati sul mercato “sanamente” vigilati sanno sempre quanto e come prestare. E se qualcuno non riceve credito è semplicemente perché non lo merita: perché ha un rating basso o non ce l’ha o non passa l’esame di Basilea 2.
Questo ha detto Tremonti, muovendosi da politico e da player sullo scacchiere politico-finanziario nazionale: non diversamente da quanto fanno i suoi colleghi di altri governi e di altri establishment. E se la recessione colpirà le banche italiane più di quanto subprime e derivati hanno colpito quelle internazionali, nessuno stavolta, sul fronte bancario, potrà lamentarsi: neppure se il prezzo di Borsa delle banche scenderà pericolosamente e le renderà scalabili.
E le banche? UniCredit – ricevendo l’applauso del Fondo monetario internazionale e dello stesso Draghi – ha lanciato un aumento di capitale “vero” da 4 miliardi. Che sarà un atto di coraggio e onestà manageriale da parte del Ceo Alessandro Profumo, ma intanto conferma che la Grande Crisi ha lasciato cicatrici profonde nel bilancio di Piazza Cordusio.
Ma ora la questione vera è: i 4 miliardi (dopo quelli imbarcati meno di un anno fa sotto forma di "cashes", strumenti patrimoniali ibridi) saranno forniti davvero dal "mercato"? Oppure le nuove azioni UniCredit saranno sottoscritte in parte rilevante "a fermo" da un consorzio di collocamento bancario guidato da Mediobanca e Bank of America-Merril Lynch?
Perché in questo caso non sarebbero affatto demagogiche come paiono le invettive di Tremonti contro «la finanza speculativa che rialza la testa e prepara nuove crisi». E se l’aumento UniCredit gestito da Mediobanca (che ha già in custodia una quota non piccola di "cashes") avesse come fine collegato quello di razionalizzare il polo Mediobanca-Generali, già dominato da investitori non italiani?
Diverso il caso di Intesa Sanpaolo, il cui controllo è già delicatamente in equilibrio tra almeno tre soggetti: la milanese Fondazione Cariplo, la torinese Compagnia Sanpaolo e l’asse Generali-Credit Agricole (il cui ruolo è al centro di una contestazione dell’Antitrsut italiano). È comprensibile che gli azionisti stabili abbiano comunque preferito non rendere più complessa ancora la situazione proprietaria. E questo indirizzo (peraltro non condiviso da tutti al momento di voto nei consigli) ha oggettivamente incontrato il desiderio del management di non vedersi vincolato nelle strategie, nelle politiche gestionali, nei pacchetti di compenso.
Però la via d’uscita non è apparsa tra le più soddisfacenti. L’emissione di un prestito obbligazionario subordinato da 1,5 miliardi appare al di sotto delle esigenze di consolidamento patrimoniale di una banca della dimensione di Intesa Sanpaolo. E il costo "di mercato" del bond (8,375% annuo) non è così diverso da quello del "bond di Stato" offerto da Tremonti.
Di questo “0-0” gli unici a potersi dichiarare veramente compiaciuti sono quindi i cosiddetti “economisti riformisti”, nocciolo duro delle sedicenti “élites”, come il columnist del Corriere della Sera, Francesco Giavazzi, invitato all’Ecofin di Goteborg dal Governo svedese per aver decantato al cittadino italiano (eternamente "impresentabile", visto dal settentrione delle Alpi) il salvataggio (semi-pubblico) del sistema bancario scandinavo nei primi anni ‘90. Senza aver però mai raccontato i perché di una delle prime manifestazioni di quell’“alcolismo finanziario” – endemico nel Nord Europa – che ha conosciuto nel crack dell’Islanda la sua ultima e più grave manifestazione.