Ogni tanto è bello levarsi qualche soddisfazione. Il sottoscritto e quindi il sito su cui scrive, negli ultimi due giorni se ne sono tolte parecchie. Dopo settimane di silenzio, infatti, la grande stampa ha deciso di porre fine alla retorica della ripresa e ha deciso di guardare in faccia la realtà per quella che è: un disastro di irresponsabilità globale.
Il primo è stato Massimo Gaggi sul Corriere della Sera di domenica che in un bell’articolo faceva notare come l’ottimismo e i rialzi che regnano in Borsa sono completamente svincolati dai dati ancora pessimi dell’economia reale, soprattutto in Usa. Se infatti il Dow Jones ha raggiunto la soglia dei 10mila punti, sono i dati senza precedenti di deficit e disoccupazione Usa a rendere questo dato folle e non degno di un brindisi, visto che oltretutto quel dato depurato ai valori azionari correnti vedrebbe il Dow a quota 7600 e non 10mila come nel 2007.
Ieri, poi, è stata la volta di Corriere Economia, il dorso economico del lunedì del foglio di via Solferino, che dedicava apertura di prima pagina ed editoriale al ritorno in grande stile della minaccia dei derivati. Federico Fubini ci informava del fatto che le banche hanno ricominciato a fare ingegneria spericolata perché trascinate dall’euforia dei mercati, tanto che i livello di esposizione a questi strumenti è tornato al livello precedente al crack Lehman, ovvero nove volte il Pil mondiale. Nel suo fondo, invece, Nicola Saldutti ricordava come per la finanza questa crisi sia stata quasi inutile.
Tutti come prima, tutto peggio di prima. Già, perché prima le bolle nascevano nell’incubatrice di una crescita reale, mentre oggi la debolezza del sistema rende quei giochini delle vere e proprie armi di distruzione di massa in mano ai broker. Voi, cari lettori, di queste cose eravate informati da almeno due mesi: poco male, l’importante è che ora si faccia qualcosa.
Un qualcosa che auspico sia differente dall’ultima mossa studiata dall’amministrazione Usa per prendere il toro delle finanza spericolata per le corna: un ex dirigente di appena 29 anni della Goldman Sachs, Adam Storch, è stato infatti nominato capo degli investigatori della Sec, la commissione che vigila sulle operazioni di borsa negli Usa. Lo ha rivelato alla fine della scorsa settimana – nel silenzio di tutti gli altri media statunitensi, a parte Cnbc – l’Huffington Post, secondo cui si tratterebbe dell’ennesimo caso di legame tra la banca d’affari regina di Wall Street e un organismi di governance del mercato o dell’amministrazione Obama.
Non ci spingiamo a dire tanto visto che non siamo nella schiera dei complottardi anti-Goldman, ma certo un indipendente avrebbe garantito verso l’esterno un miglior segnale di rottura con il passato: detto questo, tale giovane laureato a Buffalo con master alla Business School di New York e fan sfegatato di Bill Clinton sarà certamente un bravissimo controllore e censore degli abusi.
Peccato che né le attività degli hedge funds, né tantomeno quei pozzi neri della speculazione chiamati circuiti over-the-counter ricadono sotto il controllo diretto della Sec, a differenza della Fsa britannica. Forse per questo si è voluto gettare fumo negli occhi alla gente, si regola ciò che è già formalmente regolato mettendo a capo delle guardie un genio indiscusso: per il resto, tutto come prima.
Anzi, peggio. Perché ora deficit e debito stanno davvero spaventando gli Usa che devono piazzare a ogni costo questi macigni al’esterno attraverso bond governativi in un periodo di debolezza devastante del dollaro: Goldman, questo sì, è controparte di quasi tutti quei contratti obbligazionari – e quindi spinge perché si stampi all’impazzata poiché guadagna su commissione – ma il problema sta altrove, ovvero come bloccare la politica d’azzardo della Fed che basando le politiche di supporto dell’economia – a dire il vero, della finanza – sulla creazione di moneta fasulla con cui tra l’altro ricomprarsi il debito sta aprendo la strada a una bolla spaventosa e un’ipotesi di iper-inflazione quando mai dovesse partire davvero la ripresa globale.
Anche perché, come diceva giustamente ieri Carlo Pelanda su ilsussidiario.net, si moltiplicano i commenti allarmati dalla prospettiva del crollo del dollaro. Se succedesse l’Europa pagherebbe il maggior prezzo del riaggiustamento globale, con il rischio che gli Usa vedano solo i benefici nel breve termine di un dollaro debole.
Vediamo un po’ la situazione. Nel fine settimana il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, ha dichiarato che «l’euro non è stata creata come moneta di riserva globale». Troppo tardi, monsieur. La Cina e gli altri paesi esportatori hanno incrementato le loro riserve di 413 miliardi di dollari nel terzo trimestre di quest’anno e Barclays Capital ha dichiarato che il 63% di queste sono in assets indicizzati in euro o yen.
Detto fatto, l’euro viene scambiato a 10 yuan, a 1,49 contro il dollaro e in parità tecnica con la sterlina. Quindi, finché gli stati asiatici manterranno basse le loro valute per guadagnare in export, questa tortura monetaria continuerà: piaccia o non piaccia a monsieur Trichet. David Bloom, analista strategico di Hsbc, è stato chiaro: «L’euro ha la maledizione di dover essere e restare forte, sfortunatamente per i paesi dell’eurozona».
Il problema risiede anche nell’interdipendenza tra Usa e Cina, il fatto che i due giganti si mantengano a galla l’uno con l’altro con la differenza che Pechino ha il coltello dalla parte del manico: l’uno detiene quasi 1000 miliardi di debito del Tesoro Usa nelle sue banche garantendo la sopravvivenza a Washington, mentre l’altro spinge i propri cittadini agli acquisti made in China che hanno consentito a Pechino di accumulare quelle riserve che ora ha diversificato in euro e yen.
Insomma, una situazione globale di cui c’è poco da essere confortati. Ma la Borsa festeggia: d’altronde, anche l’orchestra suonò fino all’ultimo sul ponte del Titanic. Attenzione, se una delle tante bolle in fabbricazione – alcune in stato decisamente avanzato – dovesse scoppiare, quanto vissuto finora sarà sembrato una crisi condominiale.
Lo scorso weekend negli Usa è fallita la centesima banca provinciale, la San Joaquin Bank di Bakersfield in California: fallita, default totale. E se fate un giro tra i broker le scommesse su chi sarà la prossima e quante saranno in totale vanno a ruba, si gioca sulla morte altrui a colpi di cds: insomma, si scommette sulla fine della propria economia. Si chiama suicidio.