Si possono mettere in discussione dieci anni di politiche del lavoro, nonché i contenuti di un Libro bianco sul welfare pubblicato solo cinque mesi fa, in meno di un minuto? Lo ha fatto ieri il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, con una dichiarazione per molti versi sorprendente che conviene riportare per intero: “C’è stata una mutazione quantitativa e anche qualitativa del posto di lavoro, da quello fisso a quello mobile – ha sostenuto Tremonti – ma la mobilità di per sé non è un valore. Il posto fisso è la base su cui fare progetti e fondare famiglie. La mobilità per altri è un valore in sé, per me no. Per me l’obiettivo fondamentale è la stabilità del lavoro, che è base di stabilità sociale”.



Dieci anni di boom per i contratti di lavoro atipici (interinali, cocopro, a progetto su tutti), anche grazie ai quali si sono potute ottenere performance quantitative eccellenti: dal 1998 ad oggi infatti sono stati creati 3 milioni di posti di lavoro. Di questi, si badi bene, 2 milioni a tempo indeterminato. Come dire che le diverse forme di flessibilità progressivamente inserite nella nostra legislazione hanno creato le condizioni per un funzionamento più dinamico del mercato, con la conseguenza di un accesso più agevole in particolare per i giovani.



Lasciando ad altri la ricerca delle radici di questa uscita e delle sue inevitabili ragioni tattiche, rimane sul piatto il peso, culturale e politico, di affermazioni che certamente rompono da destra un tabù resistentissimo. E che però nella loro radicalità non aiutano ad affrontare con serenità un problema che c’è: quello della mancata coniugazione della flessibilità con una necessaria riforma del sistema delle tutele e dell’accompagnamento al lavoro, per dare alla persona gli elementi di sicurezza e stabilità che sicuramente oggi in molti casi sono venuti a mancare.

Proprio qui a ben vedere risiede l’errore storico più rilevante che dobbiamo scontare: da un lato il sistema delle tutele era e resta per la maggior parte appannaggio dei lavoratori con contratto standard (quelli con il posto fisso), lasciando colpevolmente fuori dal recinto delle sicurezze tutti gli altri (partite iva e cocopro innanzitutto, ovvero le tipologie contrattuali atipiche più diffuse); dall’altro la rete dei servizi per l’accompagnamento al lavoro non è decollata, e i lavoratori si ritrovano molto spesso soli con il loro percorso e con contrattazioni individuali nelle quali si trovano spesso in una condizione di oggettiva debolezza. 



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Il risultato è che milioni di lavoratori (almeno quattro, secondo le stime più recenti) rischiano di dover affrontare esperienze sconosciute fino a qualche anno fa, ritrovandosi d’improvviso in un’area grigia che sfugge quasi totalmente alle statistiche ufficiali e che solo alcune ricerche empiriche ha iniziato a raccontare. Qualche esempio? Giovani donne a cui non viene rinnovato il contratto a progetto a seguito di una maternità. Trentenni di belle speranze costretti ad aprire la partita iva senza averne molta voglia, perdendo anche quelle minime garanzie (tutela della malattia e indennità di maternità) nel frattempo concesse ai cocopro. Cinquantenni espulsi dal mercato e reintegrati sine die con forme flessibili e con speranze quasi nulle di poter ritrovare un posto a tempo indeterminato. Persone di ogni età e sesso che, in caso di perdita del posto di lavoro, non possono contare sul classico “paracadute” generato dal trattamento di fine rapporto (ovvero la classica liquidazione), non previsto per gli atipici.

Così si generano nuove disuguaglianze sociali. Così si finisce in alcuni casi intrappolati in una spirale al ribasso, di mansioni e di capitale umano.

È probabile che Tremonti avesse in mente solo questi casi (certamente diffusi ma non rappresentativi dell’intero mondo del lavoro) nel preparare il discorso di ieri. In tutti questi casi il ministro ha sostanzialmente ragione a smontare un falso mito (quello della flessibilità buona a prescindere), ma forse sbaglia a rovesciare la logica aderendo al mito speculare della flessibilità come fonte di tutti i mali. Se si inforcassero gli occhiali del buon senso e non quelli dell’ideologia di largo consumo sarebbe più interessante sottolineare l’incapacità di tutti gli attori (politici, sindacali e imprenditoriali) nell’adeguare il sistema delle tutele al mutato quadro del lavoro, prevedendo adeguati interventi per difendere i profili professionalmente più deboli dalle possibili forme di sfruttamento e mortificazione.

Non ci sono dubbi che la flessibilità funziona bene in tempi di economia espansiva, ma diventa un problema serio in tempi di crisi. Così come non c’è dubbio che dieci anni di mercato a briglia sciolta hanno rimesso in discussioni conquiste di civiltà che apparivano consolidate. Ma siamo sicuri che a tutto ciò si debba rispondere smontando le riforme effettuate per tornare alla rigidità del posto fisso? Forse neppure Tremonti ci crede davvero.