La guerra dei dati continua. Crollo degli ordinativi dell’industria, ha detto ieri l’Istat. I dati positivi di Confindustria e dell’Ocse sulla nostra produzione industriale non dicevano invece che la ripresa c’è? «Il sistema italiano – dice l’economista Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison – ha dimostrato finora di saper produrre quello che gli serve per competere sul mercato internazionale». Eppure, non tutti sono d’accordo. Sul Corriere del 13 ottobre il manager Roger Abravanel ha scritto che l’Italia ha bisogno di un new deal e che «la soluzione sta nel trasformare la struttura produttiva del paese in un’economia di servizi ad altra produttività». E la nostra impresa? Colpevole. «“Piccolo è bruttissimo” perché molte piccole imprese italiane in realtà competono con quelle più grandi grazie unicamente all’evasione fiscale e al mancato rispetto delle regole».



Dobbiamo davvero stravolgere la nostra struttura produttiva per diventare competitivi?

Non credo proprio. Capisco bene l’importanza di servizi concorrenziali e competitivi, ma fondare la competitività sulla liberalizzazione di taxi e aerei mi sembra un’utopia gigantesca. La realtà ha dimostrato che non è sufficiente, per avere un ruolo nell’economia mondiale, avere una società basata esclusivamente sui servizi. Bisogna produrre anche – e soprattutto – beni reali.



Non negherà che la concorrenza produce servizi più virtuosi, abbassa i costi per il cittadino e aumenta la competitività del sistema…

Affatto. In quella che Eurostat chiama economia non finanziaria si collocano servizi come i trasporti, la logistica, la rete delle telecomunicazioni, e il cittadino è il primo a sperimentare i benefici di un mercato più liberalizzato in questi settori. Ma i servizi, per quanto funzionali, devono integrarsi in un sistema economico che produce altri tipi di ricchezza. Quella dei beni reali, appunto. Manifattura in testa.

Perché sarebbero le Pmi secondo alcuni a tarpare le ali del nostro sviluppo?



Il presupposto di molte analisi – anche di quelle per le quali il nostro sistema di Pmi è un’anomalia inspiegabile e dunque “colpevole” – è che per crescere di più occorre fare più servizi. Ma la realtà degli ultimi dieci anni ha mostrato che se altri crescevano di più, non è perché facevano più liberalizzazioni, ma perché avevano inondato di finanza creativa e di speculazione immobiliare i loro paesi, spingendo i cittadini ad indebitarsi.

È la storia dell’ultimo anno di crisi economica.

Ma certo. Paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda e Irlanda sono cresciuti più degli altri per il semplice motivo che hanno spinto sui debiti privati al punto tale che tra il ’95 e il 2007 i debiti delle famiglie inglesi sono cresciuti più di quelli di tutte le famiglie di Germania, Italia, Francia ed Austria messe insieme. Attualmente la bilancia commerciale inglese è quella con il più forte passivo in Europa.

Torniamo alle Pmi. Esiste una “questione dimensionale” da mettere al centro di una politica industriale, oppure far questo vuol dire togliere spazio alla cosiddetta evoluzione “darwiniana” e al libero mercato?

Prima una parola sulla politica industriale. Penso che l’economia non abbia bisogno di essere irreggimentata in maniera forzata. Le grandi imprese ormai in Italia sono quelle che emanano dagli ex monopolisti delle infrastrutture, energetici e delle telecomunicazioni. Aggiungiamo la Fiat, poi c’è il vuoto. Ma questo scenario è il risultato di un lungo processo che ha visto il fallimento di colossi come Montecatini, Montedison e Olivetti. Quel che vediamo sulla scena sono storie specifiche di alcune aziende e non soltanto errori o scelte sbagliate della nostra politica.

Il nanismo delle Pmi è un difetto o una virtù?

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Partiamo dai risultati. Il sistema italiano ha dimostrato finora di saper produrre quello che gli serve per competere sul mercato internazionale. Non va però dimenticato che l’Italia ha saputo produrre quel “quarto capitalismo” così studiato da Mediobanca: medie imprese strutturate e imprese medio-grandi, le cosiddette multinazionali flessibili, leader di nicchia nei loro comparti con posizioni di quasi monopolio nel mercato mondiale per l’eccellenza raggiunta nel loro segmento. L’auspicio è che un’Italia che voglia misurarsi con le difficoltà della crisi attuale – che, per inciso, sta ponendo severi problemi alla piccola e media impresa – possa contare su un sistema bancario più proattivo nel favorire aggregazioni e quindi una crescita del numero di medie imprese strutturate.

 

I distretti tengono?

 

Come tutta l’industria manifatturiera mondiale stanno soffrendo molto. Non credo però che sia corretto, come ha fatto l’Economist, fare l’epitaffio dei distretti italiani per il semplice fatto di essere andati a Matera e nelle Murge a costatare la crisi del mobile imbottito. Sappiamo tutti che a mettere in ginocchio il distretto è stata la concorrenza asiatica. Ma da lì a ricavare la conclusione che il sistema manifatturiero italiano sia obsoleto, ne passa. Anche noi potremmo dirlo dell’economia inglese dopo essere andati a visitare la Northern Rock.

 

Qualche dato?

 

Da giugno 2008 a giugno 2009 l’industria manifatturiera italiana dei beni non alimentari ha avuto un surplus di circa 56 miliardi di euro, mentre il corrispondente valore per la Gran Bretagna è stato di -61 miliardi. È un vezzo britannico quello di dare lezioni agli altri. Italia ed Europa continentale continuano ad avere nell’economia reale il loro punto di forza.

 

Confindustria snocciola dati positivi sulla produzione industriale, ieri escono dati Istat che sembrano la smentita dei primi. A chi dobbiamo credere?

 

Il balletto delle statistiche può dare esiti comici. Ma ci sono elementi che vanno chiariti. I dati di agosto dicono un incremento della produzione industriale del 7 per cento, e fatturato -3 per cento. Se dovessimo attribuire significatività contemporanea a questi indici dovremmo dedurre che ad agosto le imprese italiane hanno aumentato la produzione fisica, +7 per cento, ma venduto i loro beni a prezzi molto più bassi, come dimostra il -3 per cento in termini di fatturato. Lo hanno fatto per mantenere quote di mercato? È una forbice che lascia perplessi.

 

Il calo degli ordinativi pubblicato dall’Istat la preoccupa?

 

Gli ordinativi di agosto potrebbero aver marcato un rallentamento, non credo però nella misura emersa dai dati di ieri. Non posiamo pensare di attribuire già ora un valore universale al dato sugli ordinativi di agosto. E poi il dato mensile in sé vuol dire poco. Se guadiamo ai dati trimestrali, gli ordinativi totali sono diminuiti dell’0,8 per cento. Ma questa è la somma di due opposte tendenze: un -2,9 per cento di ordini nazionali, e un +3,4 di ordini esteri, che rispecchia più da vicino la situazione attuale. Abbiamo avuto un risveglio sia pur debole della domanda estera negli ultimi mesi, mentre la domanda nazionale continua a rimaner abbastanza fiacca.

 

Siamo destinati a rimanere al palo?

 

Prendiamo gli ultimi dati trimestrali del Wto sulle esportazioni dei principali paesi del mondo in dollari, relativi al secondo trimestre del 2009 rispetto allo stesso trimestre del 2008. Italia -35 per cento, Germania -35 per cento. Polonia, anch’esso un paese manifatturiero, -35 per cento. Anche Gran Bretagna e Turchia -35 per cento, Svezia -40 per cento, Finlandia -47. Questi ultimi due paesi, che hanno un’industria più basata sull’hi-tech e sull’elettronica di consumo, risultano penalizzati.

 

Che conclusioni si sente di trarre?

 

Che se guardiamo lo scenario mondiale, la situazione critica non dipende da problemi di competitività dei sistemi nazionali, ma dal fatto che il commercio mondiale si è contratto di un terzo. Il primo semestre del 2009, rispetto a quello analogo del 2008, ha visto sparire in un colpo solo un terzo del volume degli scambi mondiali. Non bisogna dimenticare che siamo di fronte ad una catastrofe che non ha precedenti se si esclude quella del 1929.

 

Qual è la via d’uscita per rilanciare la produttività?

 

La risposta secondo me non può essere nazionale. L’Europa deve pensare ad un grande piano comune a sostegno della produzione dei beni di investimento e di consumo, in modo da rimettere in moto il meccanismo positivo della crescita. E oggi per avere più investimenti c’è un unico modo: finanziarli e incentivarli con vantaggi fiscali. La strada maestra, e più realistica, è un’intesa sull’emissione di titoli di debito pubblico europeo. Oggi l’unica area del mondo che può ancora indebitarsi senza determinare uno sconquasso nelle finanze internazionali, soprattutto nelle proprie, è l’Europa.