Gli ultimi giorni ci hanno mostrato un inedito gioco dei ruoli nel quale mai avremmo pensato di vedere il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, difendere il posto fisso, Confindustria difendere la linea del governo senza il governo – perché il premier ieri ha dato ragione al suo ministro -, la Cgil chiedere, senza molta convinzione, di “aprire un tavolo contro la precarietà”. E il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, spiazzato, tacere.
«C’è stata una mutazione quantitativa e anche qualitativa del posto di lavoro, da quello fisso a quello mobile – ha sostenuto Tremonti l’altro giorno al convegno della Bpm – ma la mobilità di per sé non è un valore. Il posto fisso è la base su cui fare progetti e fondare famiglie. La mobilità per altri è un valore in sé, per me no». Il coro è stato unanime: è un passo indietro, perché la flessibilità, hanno ripetuto tutti o quasi, è un dato acquisito.
Ci sono però alcuni elementi sui quali vale la pena riflettere. A ben vedere, Tremonti non ha detto che la flessibilità è da gettare, ma che la stabilità è un valore. E su questo assunto non posso non dirmi d’accordo. I cambiamenti nell’economia reale che hanno segnato gli ultimi quindici anni hanno cambiato anche il lavoro e i contratti vi si sono dovuti adeguare. Flessibilità è diventata una parola d’ordine e la precarietà è oggi comunemente accettata dalle giovani generazioni come un dazio da pagare per entrare nel mondo produttivo. Bisogna però chiedersi se la flessibilità sia il paradigma che esaurisce e fa da guida all’intera tipologia del rapporto di lavoro.
Dieci anni fa si cominciò a teorizzare che in futuro il mondo del lavoro non sarebbe più stato caratterizzato dal posto fisso, ma da una sequenza di rapporti di lavoro più o meno definitivi. L’accento si sarebbe spostato – e occorreva quanto prima prepararsi, anticipando l’approccio che sarebbe venuto – su un percorso segnato da “occasioni” di lavoro. E la stabilità? L’importante, si diceva, era l’accompagnamento del lavoratore con misure di sostegno: sostegno economico nelle fasi in cui c’era la perdita di lavoro prima del reimpiego.
Ma chi conosceva e conosce da vicino il mondo imprenditoriale italiano, non poteva e non può non rimanere perplesso. Occorre, a mio modo di vedere, tenere a mente tre questioni distinte.
La prima attiene alle caratteristiche del nostro tessuto produttivo, fatto per il 95 per cento di piccole e medie imprese. Per la piccola impresa la persona è un asset fondamentale al quale non è così facile rinunciare. Se in un’azienda con due milioni di fatturato se ne va il commerciale, il rischio è di perdere il 50-60 per cento delle quote di mercato; se ad andarsene è un bravo tecnico, la via più breve è rivolgersi alla concorrenza, perché formarne uno nuovo in proprio è praticamente impossibile. Nelle Pmi la stabilità del posto di lavoro vuol dire poter attingere ad un capitale umano costante, che conosce e condivide gli scopi dell’azienda. Si crede comunemente che le Pmi siano per la flessibilità ad oltranza, la realtà invece è che sono le prime a volersi tenere il lavoratore capace. Non è vero dunque che tutte le imprese amano la flessibilità: la praticano i grandi gruppi perché hanno più quote disponibili a bassa qualifica e cicli produttivi che permettono loro di fare turnover di personale a seconda delle esigenze.
La seconda questione riguarda il lavoratore. Difficilmente un ragazzo che ha cambiato cinque posti di lavoro in cinque anni rappresenta un investimento per l’azienda. Questa volatilità d’impiego anzi in moltissimi casi è un dato negativo, perché ostacola l’acquisizione di una personalità professionale specifica. La versatilità del lavoratore è una dote personale, ma non un valore aggiunto per imprese in cerca di un profilo qualificato.
C’è una terza considerazione importante. Per chi è disoccupato il vecchio sistema rigido – lo stesso sistema che prende come bersaglio polemico chi senza troppa attenzione esalta la flessibilità – rende oltremodo difficile entrare nel mondo del lavoro, mentre un sistema flessibile rivela tutti i suoi vantaggi proprio in fase di ingresso. La flessibilità moltiplica le opportunità ed è meglio avere un’opportunità in più che restare disoccupati.
Tutto questo dimostra come il vero problema stia nella cultura del rapporto che si instaura tra lavoratore e azienda. Si pensa che la flessibilità sia solo a vantaggio dell’azienda e svantaggio del lavoratore. Non è vero: la flessibilità è a svantaggio di entrambi, perché l’azienda non dispone di persone che investono il proprio futuro nel lavoro, e il lavoratore non ha garanzie solide di crescita professionale. Ecco perché il rapporto di lavoro stabile dovrebbe avere il primato. Non come status, ma come paradigma sociale e imprenditoriale e come valore. Solo la certezza del lavoro, è stato giustamente osservato, permette ad un giovane di programmarsi la vita.
Occorre incentivare le aziende disponibili ad instaurare con il lavoratore una soluzione stabile. Questa sarebbe una riforma fondamentale, al pari di quella che deve trovare al più presto forme di tutela per chi si trova in stato di precarietà. I contratti flessibili sono positivi perché incentivano e facilitano l’entrata in azienda, ma una volta che il contratto diviene a tempo indeterminato, è a quel punto che deve esserci un incentivo forte. I cinque anni di assunzione di un lavoratore, per esempio, potrebbero coincidere con forme di defiscalizzazione in favore dell’azienda.
Ma c’è un’ultima considerazione. La cosa peggiore, nel momento in cui il paese dovrebbe pensare alle riforme da fare per consolidare la ripresa e uscire dalla crisi, sarebbe quella di creare stabilità confidando nella tenuta degli ammortizzatori sociali, senza ripristinare le condizioni per far ripartire lo sviluppo. Davvero il paese troverebbe un “posto fisso”; ma nel gruppo dei paesi la cui economia rischia di soccombere, soverchiata dal proprio debito pubblico.