Le affermazioni di Tremonti sul c.d. posto fisso non sono del tutto sorprendenti in bocca al ministro. È da qualche anno che Tremonti sta esprimendo posizioni critiche nei confronti dei capisaldi del liberismo, correggendo così suoi precedenti orientamenti.

La critica alla mobilità indifferenziata, alla precarietà e ai relativi eccessi è parte di questo revirement più ampio. Si aggiunge alle polemiche contro la globalizzazione senza freni, contro le liberalizzazioni, affrettate e corrispondenti al crescente interventismo statale in vari campi, dalle reprimende alle banche, al lancio della banca del Sud.



Sono molti a ritenere che queste esternazioni di Tremonti abbiano finalità che vanno oltre il merito delle singole questioni e che segnalano la sua volontà di riposizionarsi nel contesto politico attuale e per il dopo Berlusconi. Quanto queste interpretazioni siano corrette si avrà modo di verificarlo nei fatti; forse anche presto.



Certo è che il tema scelto, in questo caso, è particolarmente significativo. L’attenzione dei media si è concentrata sulla lode del “posto fisso” che è una forzatura, penso anche nel pensiero di Tremonti. Ma l’alternativa per le sorti delle persone e per il mercato del lavoro non può essere fra una flessibilità senza limiti che diventa precarietà e un posto fisso, inteso come garanzia assoluta di stare sempre sulla stessa “sedia”, a prescindere dalle vicende dell’impresa e del mondo.

È vero che né la flessibilità né la mobilità sono valori in sé. Sono aspetti della realtà produttiva e del lavoro che devono essere regolati perché siano funzionali alla competitività dell’impresa e sostenibili per la vita personale o addirittura utili alla crescita della professionalità.



Come in tutti i fenomeni sociali anche il senso della mobilità e flessibilità dipende da come sono finalizzate e regolate. Questa è sempre stata la mia convinzione. Ma non solo mia. È stata l’idea ispiratrice delle riforme del lavoro, e da me fatte approvare, già da quella del 1997 conseguente all’accordo sociale del 1996.

Questo è un orientamento comune alle migliori pratiche europee di flexicurity; che ammettono la flessibilità, ma vi pongono limiti per evitare abusi e soprattutto la accompagnano con forti protezioni sul mercato del lavoro: tutele del reddito in caso di perdita o sospensione del lavoro, servizi di politica attiva e formazione professionale per facilitare un pronto reimpiego dei lavoratori.

Purtroppo il sistema italiano è carente, su questi punti. Eppure già nel 1998 il governo Prodi, seguendo le indicazioni della Commissione Onofri, aveva pronta una riforma degli ammortizzatori sociali e dei servizi all’impiego che doveva accompagnare la legge 196. La caduta del governo Prodi ne impedì l’approvazione: e i tentativi successivi di rilanciarla, da ultimo con la delega della legge 247/2007, non hanno avuto successo.

Così la flessibilità si è sviluppata senza adeguate compensazioni di sicurezza per i lavoratori, specie per i più deboli. Anzi è stata enfatizzata dalla legislazione del centrodestra e dalle ideologie liberiste, condivise da molti esponenti dell’attuale governo.

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Questa è la carenza maggiore del nostro sistema: una sproporzione fra forme di flessibilità e la debolezza delle regole che la controllano e della rete di sicurezza per chi è colpito dalla crisi. Gli ammortizzatori in deroga approvati di recente, sono solo un rimedio parziale, di carattere discrezionale e che lascia scoperti troppi lavoratori, soprattutto precari: quei 1.600.000 di lavoratori di cui ha parlato giustamente Draghi.

 

Il richiamo di Tremonti, se non è strumentale, potrebbe essere utile a rimediare questo squilibrio fra flessibilità e sicurezza che caratterizza il nostro mercato e che incide negativamente sulla vita di tante persone. Non basta dire che i lavori a termine in Italia non sono più della media europea. La verità è che questi lavori precari stanno crescendo non solo per la crisi. La turbolenza dei mercati e l’incertezza generale della nostra economia e della nostra società unite alla mancanza di adeguate tutele, aggravano il peso dell’insicurezza per le persone, anche oltre il dato numerico, e rendono più precario il loro lavoro.

 

È questa situazione che va cambiata, al di là delle affermazioni verbali. Verifichiamo se c’è la volontà di riaprire un confronto fra le forze sociali e fra maggioranza e opposizione su questi temi per riequilibrare il nostro mercato del lavoro, per renderlo più efficiente e più giusto. Gli interventi necessari sono noti da tempo, e sono stati ampiamente sperimentati in Europa.

 

La priorità è di approvare finalmente un sistema universale di tutele per tutti i lavoratori sia in caso di crisi aziendale temporanee, per prevenire i licenziamenti, per quanto possibile, sia in caso di disoccupazione. Non basta tutelare il reddito, servono servizi efficienti pubblici e privati capaci di aiutare i lavoratori a restare e a ritornare nel mercato del lavoro, con offerte credibili e con la richiesta di impegno da parte dei beneficiari delle tutele.

 

Poi occorre combattere gli abusi che esasperano la precarietà: troppi contratti a termine sono reiterati per anni: troppi contratti di collaborazione sono lavori dipendenti mascherati per farli costare di meno. I contratti precari presentano più rischio per i lavoratori e quindi vanno pagati di più, non di meno; e devono avere tutele adeguate anche in vista della pensione.

 

Infine occorre sostenere gli investimenti delle imprese innovative, che fanno ricerca, che inventano prodotti nuovi. La green economy è un’area sconfinata da sviluppare. Senza imprese innovative e senza una crescita di qualità, non c’è buona occupazione. Non c’è posto fisso che tenga. E questo vale anche per il pubblico impiego, se non si vuole che sia un peso per tutti, ma che dia servizi di qualità ai cittadini.