L’Imposta Regionale sulle Attività Produttive (IRAP) è stata introdotta nel nostro ordinamento tributario dal Governo Prodi con Decreto Legislativo 15 dicembre 1997 No. 446, nell’ambito della cosiddetta riforma della fiscalità locale (una delle tante riforme fiscali che si sono succedute in questi ultimi quindici anni).



L’imposta, che ha sostituito diversi tributi e contributi all’epoca in vigore (tra cui, ILOR, ICIAP, imposta sul patrimonio netto delle imprese, “tassa salute” e contributi sanitari) colpisce tutti coloro (persone fisiche, società, enti) che esercitano abitualmente un’attività “autonomamente organizzata” diretta alla produzione o allo scambio di beni o servizi. Il suo gettito, pari a circa trenta miliardi di euro, è destinato alle Regioni per finanziare la spesa sanitaria di loro competenza.



L’IRAP è un’imposta fortemente criticata (dal mondo delle imprese, in particolare) fin dalla sua introduzione e ha rischiato la bocciatura (salvandosi poi in corner), da parte della Corte di Giustizia europea, per una sua presunta incompatibilità con le direttive comunitarie in materia di IVA, che vietano agli Stati membri di introdurre imposte sulla cifra d’affari, che rappresenterebbero un doppione dell’imposta sul valore aggiunto.

Gli elementi di criticità dell’IRAP sono diversi. Si tratta, in primo luogo, di una imposta caratterizzata da una certa complessità tecnica, che sta generando un vasto contenzioso tributario (basti pensare a tutte le controversie instaurate da imprenditori individuali e lavoratori autonomi in merito all’esistenza o meno di una autonoma organizzazione, che costituisce presupposto per l’applicabilità dell’imposta).



Questa complessità tecnica che caratterizza l’IRAP assorbe risorse, che sarebbe utile destinare diversamente, sia in capo a chi deve applicare l’imposta (i soggetti passivi) sia in capo a chi deve controllare che l’imposta sia stata applicata correttamente (l’amministrazione finanziaria).

Nel merito, poi, l’elemento di maggior criticità dell’IRAP è rappresentato dalle modalità di determinazione della base imponibile e, in particolare, dalla non deducibilità di interessi passivi (per le imprese diverse da quelle finanziarie) e di (gran parte del) costo del lavoro, con la conseguenza che l’imposta si rende dovuta anche da imprese in perdita.

 

La soppressione in Francia di un’imposta più o meno analoga all’IRAP (la taxe professionelle) rappresenta senza dubbio uno stimolo per dibattere in merito alla opportunità di eliminare l’IRAP dal nostro ordinamento (o, comunque, di ridurne il peso sui contribuenti).

 

Non si tratta certo di un tema nuovo, considerato che l’eliminazione dell’IRAP faceva già parte del programma elettorale di Berlusconi nel 2001 (e in quella legislatura era stata addirittura approvata una legge delega per la riforma tributaria, che prevedeva, tra le altre cose, la soppressione graduale dell’imposta) e rappresenta uno dei punti programmatici con cui il Popolo delle Libertà si è presentato (con successo) all’ultima tornata elettorale. Le novità fiscali d’oltralpe, quindi, hanno ridato slancio a un dibattito in corso già da diverso tempo.

 

La cancellazione dell’IRAP (o, quanto meno, una sua forte riduzione) consentirebbe di ridare fiato alle nostre imprese (in particolare, quelle di piccole e medie dimensioni), garantendo loro una indispensabile iniezione di liquidità e aumentandone la competitività.

 

Gli impatti sul bilancio pubblico (l’IRAP “pesa” per oltre trenta miliardi di euro) devono essere attentamente valutati, ma non devono essere visti come un ostacolo insuperabile, poiché in questo momento la priorità dovrebbe essere sostenere adeguatamente un’economia ancora in convalescenza.