Non sarà facile sopravvivere alla ripresa. Può sembrare un paradosso, ma non lo è. Nel corso del 2008-09 le imprese italiane hanno retto alla tempesta riducendo il circolante, tagliando le scorte e ogni altra voce sul fronte dei costi che fosse possibile comprimere o spostare nel tempo. In questo modo, tra l’altro, è stato possibile sopportare il “credit crunch” praticato dal sistema bancario, impegnato di suo a tappare incagli e sofferenze e ad adeguare il patrimonio a nuovi parametri di rischio meno coraggiosi. Insomma, il motore del sistema produttivo ha girato al minimo, consumando meno benzina e senza metter sotto pressione il telaio. C’è da chiedersi cosa potrà accadere adesso, quando potrebbero ripartire le prime commesse che richiedono fondi per acquistare materie prime, ridare ossigeno alle politiche commerciali o agli investimenti. Chissà se le banche-benzinai vorranno anticipare la benzina.



L’ora della ripresa è anche l’ora della verità. Il quadro cambia: sotto la spinta dei nuovi protagonisti, a partire da India, Cina e Brasile piuttosto che della ripresa Usa “drogata” dal dollaro debole. Certo, l’orizzonte resta confuso e tante nubi fanno pensare ad una ripresa nervosa, fragile, discontinua, ma che tutti i competitors vogliono comunque cavalcare. In attesa che l’Europa sappia darsi regole ed obiettivi che guardino oltre la stabilità monetaria, i Paesi della Ue si adeguano: inutile illudersi sulla possibilità di una ripresa dei consumi interni, vuoi delle famiglie (stremate e impaurite dalla minaccia della perdita dei posti di lavoro) vuoi delle infrastrutture (in assenza di un piano finanziato da eurobond). L’unica carta da giocare, al solito, resta la carta delle esportazioni, da agevolare favorendo la competitività, magari con sgravi fiscali alle imprese come si accinge a fare la Germania.



È in questo cornice che si è recitata l’ultima commedia della politica italiana. Per una singolare legge del contrappasso Giulio Tremonti, dopo aver campato per mesi come fustigatore delle banche italiane “colpevoli” di non fornire alle imprese i denari necessari, siede ora sul banco degli imputati. È lui nella scomoda veste di “banchiere di Stato” a negare a Governo e Parlamento le munizioni necessarie per fare le riforme o, comunque, fornire al sistema le pillole per tirare avanti. È lui, tuonano i compagni del Pdl, a metterci in condizione di rischiare una sconfitta elettorale nel 2010: dopo una stagione a suon di “Papi”, lodi e risse con la magistratura, s’impone una stagione di buon governo. Per dirla con Renato Brunetta, ci vogliono “due consigli dei ministri alla settimana” per accelerare le riforme.



Ma le riforme quasi sempre costano, compresa quella dell’Università piuttosto che le tante iniziative di cui dovrebbe occuparsi la tremontiana Cdp, che per ora di investimenti ne ha promossi davvero pochini. E così è esplosa la protesta: è l’ora di trasformare le promesse in fatti, a partire dal taglio delle tasse a partire dall’odiosa Irap che Tremonti promette di abolire dal 2003 ma che resta, con qualche modifica (per giunta fatta dal governo Prodi) la stessa di undici anni fa. Una rivoluzione durata lo spazio di mezza settimana, poi rientrata alla vigilia del week end per l’intervento di Umberto Bossi, deciso a salvare Tremonti ed un quadro di governo che dovrebbe garantirgli la “spallata” nel Veneto.

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Tutto finito? Certo, la marcia indietro del premier Silvio Berlusconi ha del grottesco: prima promuove l’abolizione dell’Irap senza precisare come colmare il buco di 39 miliardi abbondanti che garantiscono il 40 per cento circa delle risorse della Sanità. Poi manda avanti il fido Paolo Bonaiuti a precisare che questo avverrà quando si troverà il modo di non far pesare il taglio sul debito e sul deficit pubblico. Insomma, abbiamo scherzato. O forse no.

Al di là delle urgenze del dibattito politico (meglio questo che gli scoop a luci rosse, ultimo quello su Marrazzo) la battaglia dell’Irap ha avuto il merito di riproporre il tema della politica economica in primo piano. Qualcosa, al proposito, sta cambiando sul fronte internazionale. E il calabrone Italia, se vuol quantomeno conservare la sua posizione attuale (settima potenza economica, al sesto posto nella classifica dell’export) deve muoversi. Non basta attendere l’esito dello scudo, ennesima una tantum, o badare, cosa necessaria ma non sufficiente, a calibrare le emissioni del debito secondo le disponibilità dei mercati. È necessario un cambio di passo, anche perché la malattia italiana viene da lontano. Nei dieci anni che hanno preceduto lo scoppio della crisi il Pil italiano è cresciuto ad una media dell’1,2 per cento, contro il 2,1 per cento dell’Unione europea a 15 (prima dell’allargamento). Il che significa che, rispetto ai cugini di Bruxelles, è stato accumulato un divario di oltre undici punti percentuali: rispetto ad un parigino o a un londinese, un cittadino di Milano ha perso un decimo del reddito. O, se preferite, l’Italia ha prodotto quasi mille miliardi di euro di ricchezza in meno, che equivalgono a sette mesi di Pil. Insomma, è come se dal 1998 ad oggi avessimo gettato dalla finestra sette mesi di consumi, produzione e risparmio. È questo il costo delle mancate riforme.

Certo, pesano i mancati investimenti dei privati, le dimensioni modeste delle imprese o la scarsa sensibilità verso la politica dei brevetti e della ricerca. Ma, più di tutto, pesa l’inefficienza dello Stato sia quando incassa che quando spende. O quando interviene nell’economia distorcendo l’uso delle risorse o vietando la concorrenza nelle utilities locali. Uno Stato che potrebbe, secondo la Banca d’Italia, dare una spinta al Pil del 30 per cento con riforme strutturali nell’ambito della burocrazia, delle infrastrutture, del capitale umano e delle liberalizzazioni.

È qui che si gioca la partita del futuro: o lo Stato, come ogni azienda che si rispetti, avvia la sua riforma tagliando i suoi costi (senza ricorrere a nuovi deficit) oppure l’Italia non ce la fa.