L’ultima riunione di Arcore tra Berlusconi e Tremonti si è conclusa con un armistizio e con un attestato di stima reciproca, dopo le forti tensioni degli ultimi giorni. Un comitato ad hoc dovrebbe ora decidere in modo più collegiale la politica economica, bilanciando l’intransigenza di Tremonti. Si tratta ora di vedere se funzionerà. Ma le premesse non sono buone: ieri in commissione Bilancio al Senato sono state formulate nuove ipotesi di intervento sull’Irap, ma il Tesoro ha detto subito no: «non ci sono le risorse».
Quando si chiede a Mario Baldassarri, economista e senatore del Pdl, un commento alla pace ritrovata tra il premier e il ministro dell’Economia, non si fa in tempo a completare la domanda. «No guardi – risponde Baldassarri – le rispondo subito che non sono affascinato dagli organigrammi. Sono più interessato a sapere quali saranno le scelte della nostra prossima politica economica». Baldassarri ha presentato un emendamento, firmato inizialmente da altri quindici esponenti del Pdl, che prevede di rilanciare l’economia senza fare altro debito. Ilsussidiario.net si è fatto spiegare da lui la sua “finanziaria”.
Arginare il deficit vuol dire rinunciare alle riforme?
Assolutamente no. È sacrosanto non fare neanche un euro in più di deficit, e su questo Tremonti non ha una ma mille ragioni. Però questo non può significare lo stop alle riforme. Ma che possono e debbono essere fatte tagliando la spesa.
La sua proposta per la Finanziaria prevede tagli per 35 miliardi di euro. Da dove cominciamo?
Chiariamo prima una cosa. I segnali di ripresa ci sono, ma bisogna intercettarli subito. Se non facciamo nulla, torneremmo fuori dal “pozzo” della crisi, cioè ai nostri livelli del 2007 – che pure non erano entusiasmanti – tra il 2014 e il 2015. Cioè troppo tardi e in condizioni di assoluta fragilità. Se nel periodo aumentassero ulteriormente i tassi di interesse e il valore dell’euro, ci troveremmo di nuovo in una condizione di emergenza nazionale indipendentemente dalle condizioni esterne dell’economia internazionale.
Dunque, bisogna far di tutto per tornare a crescere. Ma le riforme costano. O no?
Rafforzare e dare più spinta alla ripresa dell’economia è un imperativo. Ma dobbiamo farlo – e questo è il punto – senza fare un euro in più di deficit. Lo può fare forse la Germania, ma la Germania della signora Merkel ha la metà del debito pubblico italiano. Noi possiamo agire solo tagliando la spesa, le tasse e facendo più investimenti.
Il taglio delle tasse è atteso da tutta l’Italia che produce. Ma è davvero possibile ridurre la pressione fiscale con i nostri conti pubblici? Ieri sera Vegas ha detto no ad un taglio dell’Irap «perché non ci sono risorse».
Ma la nostra proposta, prima dei tagli fiscali, parla dei tagli di spesa possibili. Il bilancio pubblico, semplificando, è composto da cinque voci. Cominciamo. I salari pubblici? Non possiamo toccarli. Le pensioni? D’accordo, occorrerà allungare l’età pensionabile, ma quelle risorse servono agli ammortizzatori sociali e a dare più pensione ai giovani, e comunque non sono un elemento di sessione di bilancio. Poi abbiamo gli interessi sul debito pubblico. Qui c’è ben poco da fare: meglio cercare un santo al quale votarsi sperando che non aumentino ulteriormente. Quindi restano due voci su cinque: gli acquisti di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni e i trasferimenti a fondo perduto.
Li vediamo nel dettaglio?
Gli acquisti delle amministrazioni pubbliche negli ultimi cinque anni sono esplosi. Quelli del settore sanità – che non hanno niente a che vedere con la salute degli italiani, perché i servizi forniti sono più o meno gli stessi – sono aumentati del 50 per cento. Se tornassimo allo stesso livello di acquisti del 2002 risparmieremmo 20 miliardi. L’altra voce sono i 44 miliardi di finanziamenti a fondo perduto, che ogni anno lo stato italiano paga e che negli ultimi trent’anni rappresentano aritmeticamente metà del debito pubblico italiano. Questa voce comprende circa 20 miliardi di trasferimenti pubblici che vanno ai trasporti pubblici locali e alle ferrovie: quelli non contiamoli. Restano 24 miliardi. Di questi, si tagliano 15 miliardi di trasferimenti alle imprese e li si trasforma in credito d’imposta: un sostegno solo per quelle che faranno profitti.
Abbiamo dunque risparmiato 35 miliardi. Come pensa di utilizzarli?
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Proponiamo di togliere i salari dall’Irap: sono 12 miliardi. Poi introduciamo il coefficiente familiare attraverso le deduzioni, 5 mila euro per ogni membro della famiglia. Vuol dire 15 miliardi di sgravi fiscali alle famiglie. Con una doppia progressività: rispetto al livello del reddito – la deduzione di 5 mila euro pesa molto di più sui redditi bassi che sui redditi alti – e rispetto al numero di componenti: la famiglia numerosa ha uno sgravio molto più forte della famiglia con un solo figlio o senza. E siamo a 27 miliardi. Poi proponiamo di mettere 5 miliardi nelle infrastrutture più urgenti e facilmente cantierabili, 2 miliardi nel ripristino delle risorse al ministero dell’Interno e al ministero della Difesa per avere forze di polizia e sicurezza adeguate, e un miliardo in progetti di ricerca congiunti università-imprese.
È sua anche la proposta di introdurre una cedolare secca sugli affitti (un prelievo fisso sui proventi delle pigioni, ndr.)
Riguarda l’introduzione – di cui prevediamo la copertura di costo – di una cedolare secca al 20 per cento per i proprietari di casa, accompagnata dalla deduzione di 5 mila euro di affitto per gli affittuari. Consentirebbe un risparmio fiscale e farebbe emergere quei 10 milioni di abitazioni che risultano all’Agenzia del territorio essere a disposizione del proprietario e non occupate da nessuno. Ma che sono francamente sospettabili di essere affittate in nero.
Questo, dunque, è il suo pacchetto. Teme grossi stravolgimenti?
Aspettiamo che il governo ci faccia sapere se intende percorrere questa strada e come. Non pretendiamo di realizzare tutto subito, ma crediamo che si debba fare subito qualcosa. Mi limito a notare che il pacchetto non solo è di fatto il programma di governo, ma che esprime il codice genetico di nascita sia del Pdl sia della Lega, che sono nati su questa scelta di campo: più libertà economica alle famiglie e alle imprese e più giustizia sociale.
Cosa vuol dire il suo emendamento tradotto in termini di crescita?
La mia stima è di 140 miliardi in più di Pil, 600 mila occupati in più e 150 miliardi in meno di debito. È una manovra che vale il 2 per cento del Pil. Se invece facciamo manovre che valgono lo 0,2 per cento di Pil, dovremo rassegnarci a risultati adeguati. Dispiace dirlo e sembra scontato, ma non lo è.
Si sente di fare delle previsioni? Come andrà a finire?
Difficile dirlo, perché quando diciamo di tagliare gli acquisti o i fondi perduti, politicamente significa una cosa molto chiara: tagliare i soldi che alimentano le tasche di un partito trasversale di 100, 200 mila italiani che fanno di tutto pur di non rinunciarvi. Questa è la vera difficoltà politica. Ma se la politica è una cosa seria deve mettere sull’altro piatto della bilancia i rimanenti 57 milioni di italiani, più le future generazioni. Come vede si tratta di fare non solo una scelta economica, ma anche e soprattutto una scelta civile.
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