Nel complesso mondo del lavoro attuale, la flessibilità in tutte le sue possibili declinazioni e la mancanza di confini stabilmente definiti per i percorsi di “carriera”, inducono qualche riflessione sulle richieste implicite che le organizzazioni fanno al singolo e, reciprocamente, su quelle che il singolo avanza alle organizzazioni.
“Pack your own parachute” (vale a dire, “predisponiti il tuo paracadute”) è il modo in cui alcuni studiosi sintetizzano con grande efficacia il contratto psicologico che oggi lega persone e imprese. Il patto tra organizzazione e individuo si è decisamente modificato rispetto al contratto relazionale che è prevalso nel contesto lavorativo più stabile del “posto fisso”, quando la promessa di un lavoro sicuro veniva scambiata con la fedeltà e la lealtà da parte del dipendente.
In questa situazione, le persone spendevano gran parte della loro vita lavorativa in una sola organizzazione, nella quale la carriera corrispondeva a una ben definita successione di posizioni in senso verticale. Impegno e dedizione in cambio di una promessa di carriera e, potremmo aggiungere, di una relativa certezza sul proprio futuro, facilmente pensabile e pianificabile.
Oggi l’organizzazione continua a richiedere grande impegno e commitment alle sue persone, ma in cambio non garantisce più la sicurezza di un posto di lavoro a tempo indeterminato. La flessibilità del lavoro ha portato quindi a una modificazione del concetto tradizionale di carriera.
Le carriere, in tempi di flessibilità, si costruiscono spesso col passaggio tra più organizzazioni in una progressione orizzontale. I percorsi più tipici si caratterizzano per frequenti e rapidi cambiamenti da un’organizzazione a un’altra, così come da un settore a un altro. Mutano così le aspettative reciproche legate alla relazione individuo-organizzazione, e si fa strada il concetto di employability.
Per far fronte a carriere “nomadi” e “boundaryless”, le persone affrontano la flessibilità cercando di trovarvi un possibile percorso di crescita personale, al fine di sviluppare nuove conoscenze e competenze che, una volta acquisite, rendano “rivendibili” al di fuori dell’organizzazione.
Questo è il paracadute che “ciascuno” è chiamato a predisporsi. Questo è l’elemento di sfidante responsabilità individuale: saper essere self-developer, cioè aver sempre in mente l’importanza del proprio auto-sviluppo, in modo da riuscire a dar senso alla pluralità di ruoli e tempi che ciascuno sperimenta, e a creare un disegno unitario, quasi a comporre un puzzle, in cui si armonizzano le diverse attività frammentarie che rischiano, altrimenti, di far sperimentare un intimo senso di perdita di sé e di fallimento.
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In sintesi, ciascuno è responsabile del buon uso del proprio talento. Questo pensando agli individui. E le organizzazioni non possono non pensarci. Proprio nel momento in cui le risorse umane sono considerate la principale fonte di vantaggio competitivo delle imprese, occorre individuare un modo nuovo di far sviluppare in loro un sano commitment, cioè un’identificazione con l’organizzazione, con i suoi obiettivi e i suoi valori, insieme al desiderio di continuare a farne parte.
L’offerta di fairness, cioè di un ambiente “leale”, capace di mettere l’individuo al centro, di offrire non la sicurezza della carriera ma la sicurezza della crescita personale, sembra oggi una strada da tentare e, per alcuni, da percorrere fino in fondo.
Le organizzazioni più avvedute e più sensibili, infatti, si stanno già muovendo in questa direzione, proponendo percorsi strutturati di valorizzazione delle risorse umane attraverso progetti di formazione e comunicazione appositamente pensati per la retention delle persone di valore.
Questa strada può senz’altro rappresentare un’indicazione e un esempio di carattere generale per tutte quelle altre aziende che, finora, si sono mostrate meno propense a favorire la mobilitazione delle energie delle proprie persone in direzione, contemporaneamente, della loro soddisfazione e del raggiungimento degli obiettivi organizzativi.