La commissione Bilancio del Senato ha concluso favorevolmente l’esame della manovra finanziaria. Si continua però a discutere della possibilità di ridurre la pressione fiscale, a cominciare dall’Irap che, con un gettito di 38 miliardi, finanzia – in barba a tutte le proteste – la sanità delle regioni. L’altro ieri è arrivato lo stop del viceministro all’Economia Giuseppe Vegas: proposte interessanti, ma non ci sono le risorse. C’è però un fatto singolare, sul quale conviene riflettere. Non siamo di fronte ad un dibattito parlamentare sulla politica economica del governo. Il principale partito di opposizione, a chiusura annunciata di una lunga parentesi congressuale, ha eletto Bersani a segretario, ma non è ancora rientrato in aula dal lungo “Aventino politico” sul quale ha da tempo ritirato se stesso. E il confronto sui temi di politica economica avviene tutto dentro la maggioranza.



«In ogni caso – dice Dario Di Vico, editorialista del Corriere – si sta parlando di un problema vero. Quella che vediamo è l’unica discussione nobile che c’è in questo momento nel paese, mentre impazzano cronache di tutt’altro tipo. Bisogna dare stimolo all’economia e aiutare la piccola e media impresa, ma anche far sì che questo non riproponga la solita Italia che si fa beffe dei vincoli di bilancio». È di opinione diversa Oscar Giannino. Naturalmente di spesa si tratta, e di capire cosa fare. Ma la vera questione è politica. «Non lo dico perché sottovaluto l’importanza dell’Irap: chiedo da anni – spiega Giannino – che venga abolita e riconosco che per farlo serve un percorso graduale. Non bisogna dimenticare però che 38 miliardi di gettito Irap non possono essere mandati via con un tratto di penna dal totale delle entrate. Ma ripeto: il no di Tremonti sull’Irap non è tanto giustificato dai numeri, perché se non c’è dubbio che una riforma dell’Irap non può non essere graduale, è molto difficile immaginare che non ci sia lo spazio per gestire 3-4 miliardi, se è una priorità». E per Giannino non lo è. «Sono convinto – prosegue – che Tremonti abbia deliberatamente accresciuto la portata del suo chiarimento con Berlusconi, e l’abbia deliberatamente trasformata in caso politico, perché la sua vera grande preoccupazione è che il ribilanciamento interno al Pdl non avvenga a spese della finanza pubblica italiana».



Pdl o non Pdl, però, una finanziaria la si dovrà approvare. «Riconosco – ammette Di Vico – le valutazioni di chi punta il dito sulle esigenze di finanza pubblica. Penso però che qualcosa vada cambiato subito e che si possa cominciare, in modo sensato e graduale, proprio dall’Irap. Le nostre imprese lo chiedono. Una seconda priorità è senz’altro quella di sostenere i redditi da lavoro dipendente con interventi di taglio fiscale. Rischiamo nei prossimi mesi di essere gli ultimi ad uscire dalla crisi e di farlo più lentamente di tutti gli altri. L’Ocse ha detto che il rischio per l’Italia da qui al 2017 è di avere un tasso di crescita inferiore all’1 per cento. Tradotto, vuol dire che saltano almeno 700 mila posti di lavoro e che vedremo una deindustrializzazione in non pochi territori».



Fa discutere, in questi giorni, l’emendamento di Mario Baldassarri. La sua proposta è quella di finanziare la riduzione fiscale – «esprime il codice genetico di nascita sia del Pdl sia della Lega», ha detto a ilsussidiario.net lo stesso Baldassarri – con tagli di spesa per 35 miliardi. «La spesa pubblica va razionalizzata e riorganizzata – è convinto Di Vico – ma allo schema Baldassarri preferisco le riforme graduali e mirate che suggerisce Giavazzi, in cui accanto ai tagli ci sono anche tasse locali e liberalizzazioni».

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Di Vico, in molti suoi articoli sul Corriere, sta tastando il polso del nostro sistema produttivo, quello che ha votato Lega e Pdl, ma che adesso si è stancato di attendere ed è in fermento. Tra aumento delle delocalizzazioni, concorrenza asiatica, mancanza di tutela del marchio italiano, calo degli ordini, le preoccupazioni nel profondo nord aumentano in modo palpabile. La crisi ha sconvolto gli equilibri e la politica, che finora aveva garantito la rappresentanza degli interessi di un vasto gruppo economico e sociale estraneo all’establishment del mondo industriale e finanziario, torna ad incontrare i piccoli, si sforza di dare risposte, prova, per quanto è possibile, a garantire riforme.

 

«Le piccole aziende sono molo preoccupate dal fatto che non si vede l’esito della crisi – spiega Di Vico -. E guardano con qualche preoccupazione anche alle mosse del governo. È esagerato parlare di una rivolta delle piccole imprese contro il centrodestra, ma una prima linea di frattura c’è. Questo perché la politica tremontiana del basso profilo appare inadeguata rispetto alla gravità della crisi. La linea di Tremonti di uscire dalla crisi a fari spenti è una scelta che non paga, perché a fari spenti si può solo finire contro un ostacolo che non si vede. Io sostengo che le imprese, oltre a godere di misure di stimolo, debbano essere messe in condizione di potersi aggregare in tempi rapidi perché altrimenti la selezione la fa il mercato. Condizionerei elementi di aiuto alla piccola impresa a un processo di riorganizzazione dell’offerta con aggregazioni su base territoriale, specie nei distretti. In ogni caso la prima tranche di uno sgravio Irap potrebbe essere riservata alle aziende sotto i 50 dipendenti. Sarebbe una scelta in favore di un elettorato che ha sostenuto il centrodestra».

 

«In tutta l’area pedemontana del nord – conferma Giannino – dal Triveneto alla Romagna fino al centro, le filiere che sono più duramente colpite continueranno a soffrire nei prossimi mesi, sia perché non ripartiranno col commercio internazionale, sia perché sono le più esposte ad una ridislocazione forte verso l’Asia degli insediamenti produttivi. È la parte più esposta delle imprese italiane e quella che chiede un sostegno maggiore. Sì, c’è una base imprenditoriale e sociale che esprime una richiesta molto forte, basti pensare alle pressanti richieste della Lega e a quelle di Confindustria». Ma non è solo questione di Irap. Perché il nocciolo del confronto-scontro in atto nel governo, secondo Giannino, è prima di tutto politico.

 

E per capirlo dobbiamo tornare alla bocciatura del lodo Alfano. «Perché – spiega Giannino – il dopo-lodo consegna alle articolazioni interne del Pdl un orizzonte diverso da quello che c’era fino a prima della sentenza. E questo orizzonte ha inevitabilmente a che vedere con una diminuita presa di Berlusconi non solo sull’intero governo, ma sul Pdl in quanto tale, sulle sue articolazioni territoriali, sul suo sviluppo futuro». È stato giustamente notato che forse per la prima volta, nel momento della massima tensione con Tremonti, quando si parlava di una suo incarico come vicepremier, Berlusconi non abbia detto no d’autorità, ma si sia rimesso alla volontà del partito. Lasciando che fosse il partito a manifestare il suo scontento – ma su questo non esistevano dubbi – verso il titolare di via XX settembre.

 

Le tensioni sulla politica economica, dunque, altro non sarebbero che la linea sotto la quale si tirano le somme di un processo politico interno al Pdl. «Che riguarda il suo futuro, ma prima ancora l’aggiustamento nel presente dei rapporti interni. In altre parole: nel nord, nel sud e nei diversi modelli amministrativi che convivono nel Pdl, ci sono esperienze diverse, e oggi hanno iniziato a manifestarsi. Si riconoscono per la priorità diversa che attribuiscono alle voci di spesa di quel poco che sappiamo essere possibile spendere. Questo è il punto».

 

Ma allora chi sta giocando la partita? «Intanto – continua Giannino – il Pdl del sud non si riconosce nello schema che affida a Scajola la regia di quello che dovrebbe essere l’annunciato futuro, ancora non chiaro, del piano per il mezzogiorno. Perché proprio il Pdl del sud avrebbe preferito e preferirà avere esso un ruolo di primo piano nell’architettarlo. Adesso però è tagliato fuori. E poi c’è la Lega. Al nord, tranne in alcune grandi città con sindaci che hanno ben meritato, fino a questo momento non ha da vantare modelli amministrativi di successo in proprio. È questo che la fa scalpitare, perché vuole andare all’incasso per dimostrare cosa sa fare. Ecco perché considero le candidature nelle grandi regioni del nord un affare ancora aperto. Dirò di più: Lombardia compresa».

 

Parliamo, in poche parole, di chi rappresenta cosa al tavolo di governo. Un interrogativo impensabile fino a poco tempo fa, fino a prima che una certa sentenza della Corte costituzionale indebolisse di fatto la leadership di Berlusconi. «Sono questioni – spiega Giannino – che non hanno a che vedere subito col no di ultima istanza di Tremonti sulla spesa pubblica, ma con il riconoscimento di un ruolo e con l’investitura a rappresentare aree di governo di successo del centrodestra. Chi saranno davvero gli uomini, nelle regioni del sud dove si va a votare, su cui cadrà l’investitura di Berlusconi? Non lo sappiamo».

 

Davvero c’è da perdersi. Meglio tornare alla cronaca politica. il vertice di Arcore non doveva aver ristabilito le gerarchie e messo nel cassetto le diffidenze, sancendo al contempo la volontà di collaborare per capire insieme se e come metter mano a portafogli? Ma allora perché Tremonti ha detto ancora no agli emendamenti, riportando indietro, a quanto pare, l’orologio alla settimana scorsa?

«Tremonti – conclude soddisfatto Giannino – ha voluto dire a Berlusconi: io non discuto il fatto che sia tu a dover bilanciare le istanze. Ma che debba stare attento a che questo non avvenga facendo troppe promesse che significhino spesa, perché su questo devi sapere che io la faccia non la metto. E su questo – mi sia consentito dire – Tremonti ha ragione. Col che è confermato che la questione politica è quella che sta nelle mani del premier: come deciderà di equilibrare le diverse rappresentanze all’interno del Pdl tra interessi e aree rappresentate?»

C’è solo da augurarsi – dice di Vico – «che il dibattito non sia compromesso da vicende che non c’entrano affatto con lo sviluppo del paese».