La crisi economico-finanziaria che ha investito e continua a persistere (anche se con diversa intensità da un paese ad un altro) ha un’origine complessa, ma sicuramente una parte predominante che l’ha determinata deve essere rinvenuta nei mercati finanziari e nella loro interpretazione della “realtà” economica. Questa economia è sostanzialmente figlia di una certa “cultura economica”, cioè di un certo modo di concepire e giustificare qualsiasi azione economica come una sorta di “avventura massimamente tornacontista”.



L’attuale crisi origina da persone che hanno scavalcato a piè pari le regole fondamentali della realtà economica e ne hanno, malauguratamente, costruita una di natura “virtuale”. Sono persone ed istituti che hanno “giocato” coi numeri, dimenticando che se i numeri non sono “segno” di elementi reali, cioè non rimandano e non quantificano una “sostanza”, allora sono solo l’espressione di apparenze, sono l’espressione di nebbie che hanno il compito di avvolgere e di ovattare per plagiare, ma che, quando si diradano, lasciano apparire la realtà che, con la loro persistente “umidità”, hanno mutato ed anche distrutto.



Siamo stati di fronte ad un’economia che si è ammantata di speculazione e che si è disinteressata della prudenza, un’economia che ha favorito il consumo a credito “fregandosene” del disavanzo delle partite correnti dei bilanci nazionali (specialmente di quelli statunitensi), un’economia che ha “inventato” ricchezza vuota di sostanza e piena di illusorie promesse che non sempre le stesse autorità di vigilanza hanno saputo individuare.

Siamo stati di fronte all’economia del capitalismo-gioco, all’economia dei “lupi” e delle “volpi”, delle “spallate furbe”, delle ricchezze improvvise, del liberalismo selvaggio e senza regole che ha come unico riferimento-guida di tipo “etico” il profitto del tipo “tutto e subito”. È stata l’economia delle scommesse sui derivati che sganciandosi quasi totalmente dalla realtà quotidiana se ne è creta una virtuale, che ha avuto (e forse ancora ha) la forza di sciorinare e far passare come “novità” situazioni che, nella sostanza delle cose, possono essere ricondotte a vecchi espedienti per far soldi senza alcuna remora morale. Siamo stati di fronte all’economia dei “benefit” sempre più alti a favore di manager delle organizzazioni finanziarie che hanno prodotto superprofitti (spesso solo apparenti).

 

Siamo stati di fronte ad un’economia che quando ha iniziato a vacillare è anche divenuta “delinquenziale”, perché per proteggersi e cercare di sopravvivere ha tentato di scaricare (e ha finito con il farlo) sugli altri attori economici e su tutta la collettività le conseguenze delle proprie scelte e delle proprie operatività, che nulla ha avuto a che fare con i principi di responsabilità, di solidarietà e che mai ha avuto un qualche barlume di eticità. Un’economia che potrebbe essere puntualmente definita come del “non bene comune”.

In questa sciagurata economia, il denaro non è stato più concepito come uno strumento, ma è divenuto il dio (o forse sarebbe meglio dire il mammona) a cui occorre porre la massima adorazione perché esso possa continuamente “generarsi”: soldi che debbono produrre altri soldi, nella scommessa di un’economia completamente slegata da quella reale. Siamo di fronte all’economia della crisi morale, del trionfo dell’apparenza e dell’ostentazione di una ricchezza accumulata “senza il sudore della fronte”. Un’economia in cui l’unica etica è il massimo profitto e dove il bene comune viene totalmente trascurato in quanto inutile accessorio all’immediatezza del tornaconto.

Per noi invece l’etica ha come obiettivo primario proprio il bene comune e ci “stupiamo” giacché dalle banche, dagli hedge funds e dagli asset manager statunitensi arrivano segnali a dir poco preoccupanti tanto che ci poniamo la domanda: ma la crisi finanziaria globale è servita a qualcosa?

Il “Wall Street Journal” pone in evidenza come queste istituzioni abbiano elargito tra stipendi e benefit ai loro dipendenti circa 140 miliardi di dollari. È questo un importo mai prima raggiunto anche se andiamo a paragonarlo agli importi esborsati negli anni precedenti il 2007 e lo sciagurato 2008. L’economia finanziaria non solo disattende in maniera lampante, tramite queste “elargizioni”, le attese di un suo più prudente procedere, ma anche, se questi dati fossero pienamente confermati, essa risulta essere un’economia che usa il denaro per produrre denaro ma che è al contempo disattenta alla realtà delle cose e ai segnali che questa continuamente dà sia sotto il profilo dell’economia reale (quella fatta di ferro) sia sotto il profilo dell’etica tanto richiamata e mai ascoltata da questa tipologia d’impresa.

Il segnale è talmente allarmante che se fosse confermato dimostrerebbe come possa essere calpestato all’altare del profitto speculativo ogni senso che conduce al bene comune e quindi quanto di fatto – nella realtà capitalistica tradizionale – sia disatteso l’accorato richiamo che Benedetto XVI ha effettuato nella Sua enciclica sociale, la “Caritas in Veritate”.