Stando agli ultimi dati Ocse l’Italia sarebbe davanti a tutti i paesi europei, collocandosi in cima alla lista dei 30 paesi più industrializzati. Ma la realtà è un po’ diversa. “Sì, ci stiamo riprendendo prima degli altri – spiega l’economista Francesco Forte – ma poiché la nostra caduta non è stata così grande, anche la nostra ripresa sarà ridotta. Rimarremo al di sotto del nostro tasso di crescita di due anni fa. Servirebbero le riforme strutturali che il governo non sta facendo”.
I dati Ocse promuovono l’Italia: la misura della nostra capacità di espansione è pari a più 10,8% e ci mette davanti agli altri paesi europei. Possiamo essere ottimisti?
In realtà non aggiungono molto a quello che già sapevamo prima. Il superindice Ocse è un indice composito che dovrebbe prevedere il futuro andamento della crescita sulla base dell’analisi dei settori produttivi che sono a monte. Ma i dati diffusi dicono semplicemente che, in relazione alla precedente caduta, la ripresa in Italia è maggiore. Il problema è quello di sapere se la caduta dell’Italia fosse maggiore di quella degli altri paesi europei. E io ne dubito.
Dunque?
Penso che sia vero che ci stiamo riprendendo prima degli altri, ma poiché la nostra caduta non è stata così grande, anche la nostra ripresa sarà ridotta. Rimarremo al di sotto del nostro tasso di crescita di due anni fa.
Eppure l’euforia è stata generale. E Tremonti ha detto che il tempo è galantuomo.
Guardi, io ho qualche dubbio sugli indicatori Ocse perché sono basati sulla rilevazione di un settore industriale e manifatturiero di stampo tradizionale, come poteva essere quello di dieci anni fa. Rappresentato soprattutto da imprese grandi e medio-grandi. Una rilevazione dalla quale le piccole rimangono puntualmente fuori. Poi chimica e farmaceutica, per fare un esempio, hanno un peso molto superiore rispetto al passato. E c’è un enorme settore di servizi nuovi, di tipo non tradizionale, che non vengono censiti.
Se – come si crede – i dati sono confortanti, la politica economica di Tremonti va bene così?
Assolutamente no. Due cose non vanno nella gestione Tremonti. La prima è che manca un sistema di accertamento fiscale efficiente. Lo si vede dal fatto che le entrate tributarie italiane non seguono l’andamento economico, ma hanno una tendenza ad essere più fiacche rispetto al Pil. Visco aveva adottato sistemi di accertamento impropri: Tremonti li ha tolti e ha fatto bene, ma il prelievo fiscale, con poche differenze, continua ad avvenire con il sistema di rapina congegnato da Visco e rappresentato dall’Irap.
Non è un caso che il dibattito sulle riforme seguito alla “minicrisi” Berlusconi-Tremonti si sia incentrato su una riduzione della pressione fiscale. E l’altra sua obiezione a Tremonti?
È vero che la nostra situazione è migliore di quello che sembrerebbe dal punto di vista strutturale, ma non facciamo abbastanza per la crescita economica. Rimaniamo fermi accontentandoci del fatto che abbiamo un sistema solido. Dovremmo invece cercare di adottare una politica fiscale, e anche strutturale, di crescita. Cosa che non fa questo governo.
Ma fare le riforme vuol dire mettere mano al portafoglio.
Non è questione di portafoglio. Riformare l’Irap per renderla meno avversa alla crescita economica non costa. La politica infrastrutturale può essere fortemente incentivata con l’iniziativa privata, oppure utilizzando meglio le risorse pubbliche a disposizione: una serie di privatizzazioni – fatte anch’esse in modo intelligente – del patrimonio pubblico finalizzate alla crescita. La Cassa depositi e prestiti potrebbe essere usata di più per lo sviluppo. Una riforma delle pensioni fatta elevando l’età pensionabile potrebbe avere effetti favorevoli alla crescita.
Come nel progetto di aumento dell’età pensionabile Cazzola-Della Vedova?
Nel 1992 scrivevo sull’Avanti che l’età pensionabile si innalza incentivando il ritardo nell’andare in pensione. È esattamente questo. Non è un regalo: siccome uno lavora di più, costa meno in termini di pensione è dà di più in termini di contributi.
Ma allora qual è il punto?
Vede, nelle riforme non ne va di mezzo solo il portafoglio: c’è un aspetto etico-culturale molto importante che si tratta di indurre, proprio attraverso le riforme. Molte scelte non avvengono per puro tornaconto, ma per una scelta di preferenza individuale con forti ripercussioni sociali. Mi spiego: nella psicologia attuale la pensione è una cosa bella, il lavoro una cosa brutta. Ma la dinamica lavorativa delle persone in età avanzata dimostra il contrario: lavorare è un bene.
Certo sindacato le direbbe: così facendo si toglie lavoro ai giovani.
È una scemata, perché andando in pensione più tardi il lavoro si moltiplica: se la produttività del sistema aumenta, c’è più reddito, più attività economica e le opportunità per i giovani si moltiplicano. E poi il parcheggio in età precoce è uno spreco di capitale umano. Tra impresa e lavoratore c’è un rapporto fiduciario e di competenza che costituisce un patrimonio culturale importante da salvaguardare. Distruggerlo è uno spreco. La società italiana ha un tasso di crescita basso anche perché ha un basso coefficiente di forza lavoro.
Torniamo all’Irap. L’idea di un minitaglio dell’imposta regionale è tornata alla ribalta.
Ma il problema è il come. Se viene fatto nel modo che si legge in giro, con l’eliminazione della tassazione del valore aggiunto negativo, è sbagliato. No si pagherebbe l’Irap sulle perdite, ma resterebbero in piedi due problemi. Il primo, la riconferma che l’Irap è di fatto un’imposta sul valore aggiunto: che pecca di incostituzionalità in quanto viola la normativa europea che non ammette due imposte sul valore aggiunto. E il secondo, che le regioni perdono un miliardo e mezzo. Come glie lo diamo? Con le sovvenzioni statali? Peggioriamo le cose. Occorre che l’Irap venga eliminata lasciando che le regioni abbiano un equivalente del suo gettito, diversamente il cosiddetto federalismo fiscale non si fa.
Trichet, ieri, ha parlato di “fine della caduta libera delle economie”. Cosa ci attende nell’immediato futuro?
Il sistema bancario e di finanza privata è entrato in crisi e ha travolto l’economia reale: questo è il dato di fatto. Adesso questo disastro della finanza è finito e Trichet lo certifica. Gli effetti sull’economia reale smettono di essere negativi, ma il vero problema è che il sistema finanziario è rimasto debole. Col risultato che la politica dei bassi tassi di interesse non si trasmette all’utente finale dei prestiti, alle imprese e a chi investe. Ma non è tutto: gli interventi disordinati di aiuto hanno creato distorsioni che non aiutano la ripresa spontanea. E rimettere a posto i cocci non sarà facile.